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Punks-skaters-bboys volume 3 – mix by Sys1R

25 febbraio 2019 2 commenti

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C’è sto raccontone The rise of the punk rock b-boy che mi ha fatto strippare l’altro giorno. Ho tirato in mezzo due o tre persone e dopo Natas da Venezia, mi ha mandato un raccontone italiano anche Vanni da Bari e poi Vandalo, che quelle scene le ha calcate dall’inizio qui a Milano. Questa volta leggete il ricordo di Sys, che all’epoca è stato sia writer sia musicista di una band hardcore di cui veramente non so molto. Gustatevi il tributo a questo periodo folle di fine anni ’80, tra piazze, case occupate e hall of fame. Il mixtape è in fondo al pezzo. Grazie.

La connessione.
La connessione non so descriverla.
Era tutto molto fluido nella seconda metà degli ’80.
E’ un po’ come cercare di ricomporre i pezzi originali di una macedonia dopo averla frullata.
Ci provo lo stesso.

Ero un ragazzino dedito al metal nella prima metà degli ’80.
Quindi passato immediatamente al thrash metal, la novità.
Il sacro triplete: Anthrax, Metallica, Slayer.
Che il punk, era già roba vecchia, roba simpatica da passare alle feste per fare casino.
Poi a causa di una cassetta passatami da un amico a scuola, scoprii l’hardcore punk.
Con il primo disco dei Sucidal Tendencies.
Avevo 15 anni.
Illuminazione.
Un mondo che si apre. Che cazzo è ‘sta roba? Sbam!
E poi: Virus Diffusioni, cassette di band sconosciute a 2500 lire e dischi a 7000 lire.
Band sconosciute, italiane ed estere.
Suono disumano. Politica. Strada. Le case occupate e dipinte.
E poi Zabriskie Point, il Negozio con la “N” maiuscola.
E il buon Stiv Valli con “TVOR on Radio” su Radio Popolare.
I classici. Dead Kenedys, Black Flag, Descendents, Adolescents, Bad Brains.
i Negazione, i Crash Box, i Kina.
Le grafiche dei dischi: pazzesche. Le locandine degli show, pazzesche. Le fanzine, pazzesche.
Questa è una cosa che voglio fare.

Punto di connessione 1:
Twisted Sister, Come Out and Play. 1985. Grande disco.
Che ok il Punk HC, ma il metal resta sempre nel cuore, soprattutto se trovi il disco in offerta.
Il retrocopertina mi uccide. Ci sono loro con dietro un pezzo di Vulcan e della Subterranean Crew.
Non so cos’è, quella roba, ma fa un casino i Guerrieri della Notte.
Questa è una cosa che voglio fare.

Punto di connessione 2:
Il Muretto.
Skaters e B-boyz. Breakdance e wallride.
Un amico aveva uno skateboard. Vero.
Non quelle puttanate di plastica che vendevano qui.
Della Vision. Comprato in Francia. (ciao Antonio, grazie di tutto)
Ne comprai subito uno anch’io. Una merda, supercommerciale. Si spaccò in due subito.
Mi ricordo di questi skater al Muretto, quindi vado lì e chiedo informazioni sul mezzo.
Assemblo uno skateboard serio, imparo ad ollare al Muretto, seguendo gli altri.
Ore e ore spese su quel cazzo di pavimento di granito lucidissimo.
Elektro che ballava su un suono assurdo pompato da una cazzo di radiocassette gigante.
A pisciare, vado nella rampa del parcheggio sotterraneo.
Vedo i pezzi. Chi è di Milano ed è abbastanza vecchio come me, sa di cosa parlo.
Paura e delirio in San Babila.
Ci sono tornato più volte. In fissa. Studiando i dettagli.
Adoravo quella roba sul muro.
Ed era simile a quella sul disco dei Twisted.
Questa è una cosa che voglio fare.

Punto di connessione 3:
Era la metà inoltrata degli ’80, mio fratello (Flash One) e altri amici avevano iniziato anche loro ad andare in skate e ad ascoltare Punk HC.
Si usciva sempre a skateare con dietro una radio portatile.
I nastri proponevano un mix di Punk HC e Thrash metal.
Rotture di palle infinite con la gente e con gli sbirri.
Lo scazzo adoescenziale.
Vado in un colorificio.
Esco con delle Talken del cazzo.
Avevo disegnato una roba su carta, volevo riportarla sul muro.
Una notte vado verso l’acquedotto di Cernusco, mi metto, e disegno.
Una cagata. Il muro aveva assorbito tutto il colore.
Ma avevo deciso. Quella roba la dovevo migliorare.

Non mi ricordo chi mi parlò per primo delle Dupli Color.
Però le comprai, e dopo una festa piazzai il mio secondo pezzo su un muro di cinta.
“I’m the Law”, in onore al pezzo degli Anthrax.
Meglio, molto meglio.

Da lì, iniziai a dipingere costantemente e con me quasi tutti gli altri.
Poi incontro altri writer, a scuola, ai cortei, durante le occupazioni, in giro.
Dopo poco ci si conosceva quasi tutti su Milano e Hinterland.
Ci si scambiavano fotocopie dei libri e delle fanzine straniere, assomigliava molto alla scena Punk HC come metodo di comunicazione.
Pure la musica iniziava ad ibridarsi.
Pezzi rap facevano capolino nei dischi Punk HC come con gli Spermbirds e in quelli di band Thrash Metal come gli Anthrax.
Poi la Def Jam, i Run DMC, poi i Beastie Boys e gli Slayer, poi i Public Enemy. Devastanti.
I loro pezzi iniziano ad entrare nei mixtape che ci ascoltavamo in giro.
Poi esce Colors, il film, con quel pezzo di ICE-T come opening. Pazzesco.
Il resto, direi che è ormai è storia condivisa. I Centri Sociali, le collaborazioni Public Enemy e Anthrax. E La OST di Judgment Night a chiudere il cerchio.

Questo è quello che mi ricordo in breve.
Un grande frullatore, dove tutto si sommava e si mischiava.
Niente veniva buttato.
E tanta energia nell’aria, nononstante il conformismo imperante.

Butto giù un mixtape simile ad uno di quelli che usavamo ai tempi come sottofondo alle nostre giornate/nottate in skate. Cercherò di farlo esattamente come allora. Regnerà un po’ di caos.
E’ giusto così.

Categorie:Milano, Mixtape Tag:,

punks-skaters-bboys – volume 2, compiled by Vandalo S13

8 febbraio 2019 Lascia un commento

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C’è sto raccontone The rise of the punk rock b-boy che mi ha fatto strippare l’altro giorno. Ho tirato in mezzo due o tre persone e dopo Natas da Venezia, mi ha mandato un raccontone italiano anche Vanni da Bari e ora Vandalo, che quelle scene le ha calcate dall’inizio qui a Milano. Vandalo oggi lo seguite anche da Facebook, dove posta un sacco di writing. Il suo raccontone ha una prima parte sulla storia degli incontri tra writer, punk e skater. Poi una seconda parte con un mixtape per ascoltarsi tutta sta roba di cui parla. Grazie.

E boh, io sulle cose importanti ci sono sempre arrivato in ritardo.
Era il 1980 quando ho scoperto il punk. Quello dei Sex Pistols, dei Ramones, dei Clash, dei Damned.
Una botta da cui non mi sono ripreso mai, anche se i prime mover milanesi, quelli che ascoltavano quella roba nel 1977, dicevano che già nel 79 il punk era morto.
Beh, chi se ne frega.
Quando hai quattordici anni non te ne frega un cazzo di quello che dice un vecchio di vent’anni.
Passo 2-3 anni ad ascoltarmi solo quella roba.
Per me New York era Ramones, Richard Hell, Johnny Thunders, quelle cose li.
Se ero in vena di cose più cupe, Suicide, Lou Reed, Television.
Se ero in vena pop, Blondie.
Nel 1983 sento questo disco che si chiama Duck Rock, di quello stronzo di Malcom McLaren. C’è una musica con rumori strani fatti coi dischi e ritmi da discoteca.
Malcom McLaren lo odiavo perché lo odiava Johnny Rotten, perché era quello che voleva manovrare i Sex Pistols.
Dopo la fine della band si era trasferito a NYC e aveva scoperto questa musica che girava nei party del Bronx.
Uscì pure il video in televisione, dove vidi per la prima volta, in “Buffalo Gals”, quello che poi scoprii essere Dondi mentre pezzava su un muro.
Odiavo McLaren, odiai pure quella roba. Catalogata subito alla voce “roba da discoteca”.
Per di più avevo scoperto, insieme a Bicio (mio fratello d’avventure dell’epoca) la scena anarcopunk e la prima scena hardcore milanese, quella che girava attorno al Virus, di
Via Correggio, peraltro diventando ancora più integralista negli ascolti.
L’anno successivo, nel 1984, scrivevamo in giro il nome della nostra punk band, i B.S.C., che volevamo fare punk anche noi.
Anzi, HARDCORE. Volevamo fare hardcore, perché “If is not hardcore it’s a fuckin’ bore!”, come diceva la scritta su una delle nostre punkzine preferite, TVOR.
Ero al liceo artistico. Siccome la passione per l’imbrattamento ce l’avevo fin da piccolo, finii per esagerare. Alcune secchiate di vernice mi costarono la sospensione dal liceo per qualche giorno.
Qualche mese dopo Graffio, Fabio e Gatto, tre ragazzi un paio d’anni più giovani di me, s’infilarono di notte nella recinzione del Liceo e fecero 3 pezzi sul muro, visibili solo dall’interno.
Mi chiamarono in presidenza. Per fortuna non c’entravo.
Ma al preside non dissi chi erano gli autori.
Graffio era un dark della scuola, ma frequentava sto gruppo di ragazzi che si trovavano in Largo Corsia dei Servi, in un posto che chiamavano “il Muretto”.
C’era la gente che ballava sulla testa, come nel video di McLaren. Boh.
Fabio e Gatto smisero di fare pezzi, penso, dopo quell’episodio lì.
Graffio continuò. Lo ritrovai 5 anni dopo e m’insegno i primi rudimenti di tecnica nell’uso delle bombole.
Intanto vedo i miei primi concerti hardcore. Dalle bands italiane storiche, Wretched, Negazione, Indigesti, Peggio Punx, Raw Power, Kobra.
Siccome tenevo nota di tutti i concerti a cui andavo, posso confermare di aver visto i Wretched 27 volte, seguiti dai Negazione con 21. Tutto annotato sui diari di scuola.
Intanto, con l’85 inizio l’università, ma tra quell’anno e quello precedente vedo le prime bands americane: MDC, Youth Brigade, D.O.A. (che erano canadesi, ma facciamo come se).
Nel 1985 vedo un’altra delle cose che mi segneranno: durante un concerto al Virus in Viale Piave vedo due ragazzi con skateboards mai visti prima.
Conoscevo già lo skate, ma quello con le tavole più piccole che si usavano negli anni 70. Avevo una piccola tavola di plastica Gioca Royal che usavo alle medie.
Questa però era una roba diversa: tavole più grosse, grafiche indiscutibilmente punk, nomi dei gruppi scritti sopra e sotto.
E attitudine: questi due tipi, nella notte post concerto, saranno state le 2 o le 3 di notte, si esercitavano a fare wallride sulle serrande dei negozi facendo un rumore
terrificante: erano Fabricius dei Crash Box e Max Bonassi, un pezzo di storia dello skate (e snowboad) italiano.
Qualche settimana dopo, con Bicio, scoprimmo dove vendevano quelle tavole. Lui comprò una Vision, io una Gordon&Smith Danny Webster, che ho ancora in cantina e ogni tanto ci
salgo pure sopra.
L’86 continua così: fine settimana ai concerti negli squat (al Virus si aggiunge il Leoncavallo) e in qualche locale come l’Odissea2001, di giorno, finiti i corsi, a provare con
il gruppo nella cantina di Bicio.
Poi ti credo che ci ho messo anni a laurearmi.
Facevamo anche una punkzine che si chiamava “I DON’T CARE!”, che parlava di quel cazzo che ci pareva.
Sempre in quegli anni inizio a collaborare con TVOR ON RADIO, programma radio di punk e hardcore su Radio Popolare, iniziato da Stiv e Maniglia, continuato con Antonio e Vix e
concluso da Antonio e me.
Con il 1987 inizio a collaborare con Paolone, che all’epoca gestiva la Virus Diffusioni, un piccolo spazio occupato dove si vendevano dischi, magliette, cassette, punkzine e
autoproduzioni varie.
Insieme a Stiv Rottame cominciamo a organizzare un po’ di concerti. Tra 1987 e 1988 facciamo, in ordine casuale: Accused, No Means No, Upset Noise, Scream, Negazione, Toxic Reasons, Zero Boys, DOA, Kina, IfixTcenTcen, Ludichrist, Jester Beast, RKL, No Fx, Fugazi e molti altri.
Intanto la Virus Diffusioni, insieme al Tattoo Contingent Club occupa un altro negozio in Via Torricelli, dove rimasi per qualche tempo e vidi per la prima volta fare dei tatuaggi da Daniele, che tuttora lavora lì in quello che ora si chiama The Tattoo Shop.
Dopo un po’ me ne andai, per raggiungere Teatro e altri amici, che volevano aprire una distro com’era il Virus Diffusioni di qualche anno prima, ma aggiornato ai tempi moderni dell’88-89.
Aprimmo così la WHIP ANARCOTRAFFICANTES, vendendo dischi e tutto il resto, sopratutto hardcore, che era la nostra cosa, ma anche le prime uscite di quella musica là, che nell’83 non mi convinceva mica tanto… ma questi Public Enemy, Run Dmc, LL Cool J, non erano mica male… poi c’erano anche una vecchia conoscenza del circuito hardcore, i Beastie Boys, che facevano rap. Se lo facevano anche loro, allora, non doveva essere così male. Oltretutto cominciavano a farlo anche amici nostri, come LHP eHELS, 2 Live Cri. In seguito scoprii Paris, Geto Boys, NWA, Ice T, ICe Cube… e tutto il resto.
Fu durante il periodo della WHIP che io, Teatro e Jet4 cominciammo a fare pezzi insieme, per fondare in seguito la S13 crew con gli altri soci.
In quel 1989 e nel 1990, mi avvicinai anche alla scena HipHop milanese dell’epoca, conoscendo sopratutto i writers che bombardavano in quegli anni.
Ma per loro noi eravamo quelli dei centri sociali, e per noi loro erano dei discotecari. Salvo qualcuno con la mente più aperta, non fu semplice ne liscio l’incontro.
Ma una mecca l’avevamo in comune, una città che aveva formato se non inventato qualcosa che toccava tutti, anche se per motivi diversi: New York City.
Se devo raccontartela con il punk e l’hardcore, questa è la mia playlist tra gli anni 70 e 80.
Poi ne arriveranno altre.

New York non è la mecca solamente per l’HipHop: è stata una delle città principali per la scena punk (e proto punk) oltre che per la scena hardcore.
Nel mix che trovate ho infilato quello che per me è il punk e l’HC newyorkese fondamentale.
Gli anni del primo punk sono più o meno contemporanei a quelli in cui nasceva e si sviluppava la prima scena HipHop, quella di Kool Herc e di Africa Bambataa.
Se nel Bronx i primi DJs facevano le prime battles, nel Lower East Side di Manhattan si formava la prima scena punk di New York: New York Dolls prima di tutti, poi Lou Reed
Richard hell, Johnny Thunders, Iggy Pop, Ramones, Dictators e molti altri, che suonavano tra le pareti del CBGB’s e del Max’s Kansas City: Blondie, Talking Heads, Suicide,
Television, Stimulators.
In una manciata di anni, tra 73 e 75 e tra 75 e 80, escono gioielli storici del punk mondiale.
Verso la fine dei 70’s quella scena si trasforma: chi ne faceva parte e non è morto di eroina comincia a spostarsi verso new wave, no wave e sonorità diverse.
I contatti con la scena HipHop cominciano a esserci, sono culture di strada, e le strade sono le stesse.
Capita così di vedere in un video di Blondie il wall writing di Fab 5 Freddie e di Samo (Jan Michael Basquait).
Con i primi anni 80 gruppi di ragazzini, alcuni che vivono per strada, alcuni che arrivano da altri quartieri (Brooklyn e Queens sopratutto) cominciano a prendere in mano gli strumenti, sull’onda di gruppi seminali del punk hardcore americano come Bad Brains, Necros, Germs e altri.
Cro-Mags, Agnostic Front, Undead, Beastie Boys e Murphy’s Law mettono le basi di quello che sarà conosciuto come New York Hard Core.
Seguiti poi da altre bands come Youth Of Today e tutto il seguito straight edge HC, oltre a Madball, Sick Of It All, Biohazard e tutte le bands tra hardcore e metalcore di fine anni 80.
Citazione anche per i False Prohets, per la parte più “political” della scena, quella legata agli squats del Lower East Side, come l’ABC No Rio.
La scena NYHC è anche quella che ha più contatti con quella NY HipHop: a cominciare dai Beastie Boys, che dall’hardcore minimale degli inizi passano al rap e diventano star mondiali.
Naturalmente, anche per quanto riguarda il writing, i contatti sono diversi. Il batterista dei Cro-Mags, Mackie, è parte della RTW crew e, con il nome Hyper, firma diversi pannelli sulla subway negli anni 80.
Citazione d’obbligo per Sane (RIP), fratello di Smith, storico writer di NY, che nei suoi pezzi metteva sempre la scritta NYHC.
Mentre sono diversi, sopratutto verso la fine degli anni 80 e i primi anni 90, i writers che suonano in gruppi HC, riempiono i flyers dei concerti di puppets e scrivono il loro nome di fianco a quello della loro band (una panoramica di questa scena la potete leggere nel libro Urban Styles).
La playlist è a mio gusto, manca molta roba, ma sticazzi.
Inizia con i New York Dolls che sferragliavano quando l’Hip Hop non esisteva ancora e si conclude con i Sick Of It All, a fine anni 80, introdotti da KrsOne.

Categorie:Milano, Mixtape

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2 febbraio 2019 Lascia un commento

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L’altro giorno stavo leggendo The Rise of the Punk Rock B-boy, un bel pezzone raccontato sulla scena di NY nei primissimi anni ’80, quando hip hop e skating si erano scontrati e fusi. I writer ascoltavano hardcore e gli skater si vestivano da rapper. I Run DMC avevano portato il rock dentro nel rap e la Def Jam aveva pubblicato le prime cose dei Beastie Boys. Al che ho anestetizzato un po’ di amici, dopo Natas da Venezia, Vanni ha scritto giù un ricordone che va da metà anni ’80 ai primi ’90, prima da sbarbato in provincia di Bari e poi da studente fuori sede a Milano, quando era caduto in questa scena crossover. Era circa il 1990, circa dieci anni dopo l’articolo americano di cui sopra: il rap italiano stava uscendo con i primi 12 pollici nei centri sociali e Neffa era ancora un batterista hardcore. C’è anche un mixino con tutta quella roba spaccosa, magari vi va di riascoltarlo. Poi le altre puntate sono di Vandalo che era arrivato un po’ prima e di Sys1R, che invece è la storia tipica di tanti della Zona Est di cui lui era uno dei primi.

Nell’aria c’era aria di cambiamento. Dopo l’immersione totale per circa due anni nel mondo dell’hip hop dei primi anni ‘80, quello del breaking, per intenderci, ero passato alla new wave e al rock alternativo di quegli anni e di quelli precedenti, compreso il punk rock che mi ero perso per motivi anagrafici. All’epoca frequentavo amici che avevano circa 5-6 anni più di me e condividevano solo parte dei miei interessi musicali e nell’ambito delle sottoculture, ma continuavo ad avere contatti piuttosto stretti anche con un giro di ragazzi di osservanza strettamente hardcore punk che provenivano dal trash metal e prima ancora dal breaking dal quale provenivo anch’io.

L’hip hop, come cultura e come suono, l’avevo perso di vista nell’autunno del 1985, dopo l’improvvisa e pressoché contemporanea dissoluzione delle principali crew di breakers in quel periodo, molto potenti, ma purtroppo prive della consapevolezza dell’esistenza di tutto un mondo che andava al di là del ballo, a causa della penuria di informazioni e comunicazione con le altre realtà italiane e non, e per l’assenza di contatti con gli americani che in altre città italiane e nel resto d’Europa aveva fatto balenare nella testa di chi si era avvicinato al breaking per moda l’idea che oltre al ballo c’era tutta una cultura più ampia fatta di writing, rap e djing.

Dal 1985 al 1990 c’erano stati dei contatti sporadici se non con l’hip hop, almeno col rap e con qualche altra manifestazione di quel mondo. Nel 1986 uscì il primo album dei Beastie Boys. I miei amici ex breakers, anche se già in preda al metallo, ce l’avevano e me lo fecero ascoltare. Un giorno, non so chi, prestò a me e ad un mio amico che aveva piastra e giradischi una copia del disco. Lo registrammo su cassetta e cominciammo ad ascoltarlo ossessivamente, specialmente perché c’era dentro quell’inno alle feste più selvagge, quelle cui ambisce ogni adolescente, che è Fight for your right (to party), con chitarre distorte e testi urlati che avrebbero dovuto mandare fuori di testa qualsiasi quindicenne dotato di un minimo di amor proprio.

Nel 1988 poi, tornando a casa dal liceo, scoprii questo programma presentato da quel Jovanotti intravisto a DeeJay Television, un contenitore abbastanza trash dei fenomeni pop del momento, dove però beccai i Run DMC periodo Raising Hell e i Public Enemy, che in quel periodo passavano anche in radio e facevano capolino nelle scalette di diversi dj da discoteca, per quanto mi era dato di registrare durante le pochissime presenze in posti del genere in occasione delle feste delle classi del liceo. Nello stesso programma intravidi qualcuno che faceva breaking (Maurizio Next One, l’ho scoperto solo di recente riguardando dei filmati dell’epoca), qualche italiano che rappava in inglese, qualcuno che faceva beat box.  La cosa mi interessava, ma non riuscivo a collegarla appieno all’esperienza dell’hip hop e del breaking dell’’84-’85, il contesto era completamente diverso, la cornice troppo pop e commerciale, niente a che vedere con l’immaginario che avevo conosciuto e che continuavo a collegare all’hip hop.

Poi avevo beccato questo strano programma Rai pomeridiano in cui si sfidavano dei dj, di varia estrazione, spesso coi capelli lunghi e i look improbabili, ma quantomeno di area DMC, scratchavano e mixavano, in Rai poi… una stranezza di cui ho perso le tracce. E quello era lo stesso periodo in cui si poteva annusare nell’aria l’avvento di un cambiamento, niente di ben definito, ma un qualche blob che aveva a che fare con la musica ritmica e con uno stile più urbano, di strada, cominciava a mandarmi dei segnali. King Kong Five dei Mano Negra mi aveva particolarmente colpito, un pezzo suonato con gli strumenti da una band con una credibilità negli ambienti alternativi, con la loro patchanka di suoni e di stili che raccoglieva il testimone dei Clash, un pezzo che però non era cantato ma rappato, coinvolgente e da ballare, che faceva accendere tutta una serie di lampadine, seppur a livello subliminale.

In quegli anni, ogni tanto, quando andavo a Bari, in centro avevo visto dei tipi che provavano dei trick con lo skateboard, in un modo e con delle tavole completamente diverse da ciò che avevo visto in tv verso la fine degli anni’70, il tutto appariva molto più sporco e aggressivo. Qualche altro individuo con la tavola da skate lo avevo adocchiato sempre a Bari in piazza Umberto, tra i metallari che, a quanto pareva, andavano d’accordo anche con gente più vicina all’hardcore e quindi interessata allo skate, come da lunga tradizione nell’ambito dell’hardcore americano. Tant’è che già da anni la gente dell’hardcore, anche quelli che non avevano mai poggiato un piede su una tavola, utilizzavano una specie di proto-streetwear (bermuda colorati, sneakers alte da basket, vans e cappellini da baseball) che aveva degli elementi in comune con l’abbigliamento degli skaters. E sempre in piazza Umberto, qualche mese più tardi, durante i tre giorni della visita di leva, vidi un gruppo di skaters abbastanza numeroso che skateava nella fontana vuota di fronte all’ateneo. Nel frattempo in edicola cominciavano a uscire riviste sullo skate, una si chiamava appunto Skate, un po’ farlocca, l’altra XXX. Entrambe, oltre agli articoli specifici su scene, tricks e materiali, contenevano articoli musicali, e le band di cui si parlava erano metal, hardcore, ma anche hiphop, ricordo che su XXX in particolare, erano usciti degli articoli su Public Enemy e su Urban Dance Squad, oltre che su No Means No, Fugazi e altre band del giro hardcore punk che ascoltavo all’epoca. In una di queste riviste, poi, forse su Skate, c’era una rubrica che  se non sbaglio si chiamava Ghetto Blaster, curata da Vandalo. Non ricordo esattamente di cosa parlasse in quella rubrica, ma era qualcosa che aveva a che fare con l’hip hop, e il logo della rubrica era un dj con due giradischi collegati a un mixer, il tutto in stile comic/puppet, e se non sbaglio c’era la firma del curatore della rubrica, con uno stile strano, che non conoscevo. Il tutto faceva al caso mio, c’era il rap e l’hip hop che avevo amato anni prima, c’era il punk e l’hardcore che mi piacevano in quegli anni e il tutto era amalgamato dallo skate che non praticavo per via del ginocchio fuori uso per colpa di un demente che mi ha almeno in parte rovinato la vita al liceo (non vorrei essere nei tuoi panni, uomo, il karma è una faccenda seria), ma che mi attirava parecchio perché era selvaggio e urbano, al punto che spinsi mio fratello minore a praticarlo. Quindi, a conti fatti, non è un caso che quasi tutti i bboys del nucleo originario barese anni ‘90 venissero dallo skate.

A proposito di Urban Dance Squad, li conobbi per caso in tv, erano ospiti in qualche programma credo Rai del tardo pomeriggio, facevano Fast Lane e fu una botta, una folgorazione, la perfetta colonna sonora per un video di skate. Molto aggressivi, alla formazione classica chitarra-basso-batteria aggiungevano un dj che faceva gli scratch e un rapper nero piuttosto credibile. Erano la quintessenza del crossover che di lì a poco sarebbe andato di moda fino a diventare di maniera. Ovviamente corsi a comprare l’album che ascoltai in loop per parecchio tempo e che contribuì sicuramente alla transizione dall’immaginario rock a quello hip hop anni ‘90. Nonostante tutto, comunque, l’hip hop, o quantomeno il rap, continuavano a rimanere qualcosa di marginale nella mia esperienza. Pur amando un po’ tutta la musica, quindi, alla fine del 1990 ero ancora piuttosto vicino all’immaginario dell’hardcore.

Nel settembre 1990 mi trasferii a Pavia per l’università. I viaggi in treno da e per Milano mi avevano fatto scoprire tutto un mondo di graffiti lungo la linea ferroviaria che aggiungevano elementi allo scenario che si andava componendo nella mia testa. Non sono nemmeno sicuro di aver   collegato subito quei pezzi al rap e all’hip hop in generale, nei primi ‘80 non ne avevo mai visti dal vivo, giusto quel poco che trapelava dai rarissimi video e dalle copertine dei pochissimi dischi che avevo avuto per le mani. Quindi il tutto mi affascinava, a partire da quelle scritte abbastanza illeggibili che accompagnavano i pezzi, con quella calligrafia strana ma non casuale, studiata, una specie di codice per iniziati.

Alla fine di quell’anno o i primi mesi del successivo, i miei amici più grandi di me andarono in auto a Bologna per salutare delle amiche comuni che studiavano al DAMS. Io li raggiunsi in treno e per strada vidi la locandina di un concerto dei Negazione, la band di Torino che rappresentava un punto di riferimento per l’hardcore italiano, una band che ascoltavo parecchio in quegli anni e che avevo visto solo una volta dal vivo dalle mie parti. Il concerto si teneva in un posto che si chiamava Isola Nel Kantiere. Appena arrivati a casa delle nostre amiche, chiesi informazioni circa  il posto in cui si teneva il concerto e convinsi i miei amici ad accompagnarmici dopo cena. Arrivati in questa famosa piazzetta San Giuseppe, ci trovammo di fronte a uno scenario per noi del tutto sconosciuto. Mi colpirono i graffiti e le locandine che erano un po’ dappertutto, e soprattutto l’atmosfera alla Mad Max che si avvertiva all’esterno e all’interno dello squat, estremamente straniante e affascinante per me che non ne avevo mai visto uno. Del concerto ricordo poco e niente, anche perché probabilmente ero più interessato a osservare la stranezza del luogo e la  gente del pubblico. Per non so quale strano motivo invece, ricordo benissimo il bassista dei Negazione, Marco Mathieu, che dopo il concerto mostrava ad un tipo una delle collane che indossava e gli spiegava che gliel’aveva regalata la sua ragazza americana…E poi ricordo che alla fine del concerto, dopo che la sala del concerto si era in parte svuotata, sul palco cominciò una jam session, in modo del tutto naturale, come se fosse qualcosa che era successo già altre volte. C’era più di una persona col microfono, non ricordo come rappassero e cosa dicessero,  alla batteria il batterista dei Negazione, quello che poi si sarebbe fatto conoscere come Neffa. Non so perché, ma di quella session non ricordo altro, forse non ci diedi molto peso, forse era una cosa troppo nuova, forse mi colpì più l’aspetto sociologico della cosa, il batterista di un gruppo hardcore che si mette a jammare con gente che vuol fare il rap… boh… è un vuoto di memoria che ancora oggi non mi spiego… probabilmente ero solo troppo frastornato da quell’esperienza così nuova e forte. E poi comunque c’erano i miei amici che premevano per andar via, essendo molto meno interessati a quel posto e a quello che stava succedendo rispetto a me. Ricordo molto bene, però, che durante questa session giravano tra il pubblico ragazzi e ragazze dell’Isola che cercavano di vendere  un disco che avevano prodotto lì, che io non comprai. Col senno di poi ho sempre pensato che potesse trattarsi di Stop al panico/Stop war, il 12 pollici che di lì a qualche mese sarebbe esploso quale piccolo fenomeno underground, ma la copertina di questo disco che cercavano di vendere aveva lo sfondo bianco e poi qualcosa sul giallo, del tutto diversa da quella dello Stop al panico che comprai successivamente. In quell’occasione a Bologna percepii altri elementi di questa cultura urbana, firme e graffiti a partire da quelli su un muro in quella via di Porta Mascarella dove vivevano le mie amiche.

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Foto di Texas – Bologna Bombers

Quell’anno ci tornai altre volte a  Bologna. Una volta in un negozio di dischi sentii il primo pezzo di un album appena uscito, era Steady diet of nothing dei Fugazi e lo comprai al volo. Poi, prima di pagare, vidi una fanzine in bianco e nero fotocopiata dal nome che mi parve insolito, Alleanza latina, che intuii parlare di rap e hip hop in Italia. In copertina se non ricordo male c’era la foto di un puppet e la tag del suo autore, Dayaki, a cui la fanzine dedicava un’intervista. La comprai insieme al disco dei Fugazi e la sfogliai pieno di curiosità a casa delle mie amiche, mentre ascoltavo il disco dei Fugazi, letture hip hop e colonna sonora punk in perfetta sintonia. Quella fanzine la dimenticai a casa delle mie amiche e non riuscii più a recuperarla. All’Isola ci tornai un’ultima volta nell’estate del 1991, di pomeriggio, poche settimane prima dello sgombero. C’erano solo poche persone sedute fuori, degli habituè a far chiacchiere nella piazzetta. E poi, insieme alla mantide fatta di rottami riciclati davanti all’ingresso dello squat, vidi una rampa da skate, a testimoniare per l’ennesima volta nel mio immaginario l’esistenza di questa liaison tra punk, skate e hip hop.

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Foto di Texas – Bologna Bombers

Sempre nel 1991 andai al vecchio Leoncavallo al concerto dei No Means No, un gruppo hardcore canadese piuttosto evoluto e originale che mi piaceva molto, erano saliti per l’occasione anche i miei amici punk che venivano dal breaking, serata a dir poco delirante (qui il raccontone di Vandalo, che aveva organizzato la stessa data treanni prima nel 1988). Al banchetto dei dischi comprai My war dei Black Flag, ma la cosa che mi colpì di più e che lasciò il segno quella sera fu un pezzo rap pauroso lanciato prima del concerto dal tipo al mixer, pezzo che poi scoprii essere il primo del nuovo album degli NWA uscito quell’anno. Poco tempo dopo, da Zabriskie a Milano, il negozio di riferimento per per la scena hardcore punk, ogni sabato pomeriggio cominciai a comprare, insieme ai dischi punk, i primi dischi e cassette autoprodotte di rap italiano man mano che uscivano. E mentre la transizione/ritorno dal punk all’hip hop si completava, insieme a un sacco di dischi di rap americano nuovi e vecchi che mi ero perso negli anni, comprai anche quel Real niggaz don’t die degli NWA che avevo ascoltato per la prima volta al Leoncavallo.

Categorie:Bari, Bologna, Mixtape