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Alle origini del reggae pugliese con Rosapaeda e Superbass

3 dicembre 2023 Lascia un commento

Eccovi una nuova puntata della serie di racconti sulle origini del reggae in Italia. Oggi siamo a Bari con i Different Stylee, original del reggae nostrano che ci trasportano in un fantastico viaggio negli anni ’80. Grazie 🤩

In che momento storico avete iniziato?

Superbass: Stiamo parlando del passaggio tra anni ’70 e ’80. Eravamo amici già prima di cominciare ad ascoltare reggae, avevamo 16 anni: facevamo anche una fanzine, era il ’76-77 e si chiamava Il morso.

Rosapaeda: Avevamo comunque dimestichezza con questa cosa della controcultura, in particolare le fanzine erano una pratica diffusa. Si ciclostilavano e spillavano nelle sedi dove si faceva attività politica, specie dell’estrema sinistra. Era una cosa normale.

S: Noi, nel nostro piccolo, avevamo posizioni diverse: c’era chi era anarchico, io ero scritto alla FGCI (la Federazione Giovanile Comunista Italiana, di cui poi strappai la tessera nel ‘77), poi c’era chi era più vicino alla Lotta Continua: nel linguaggio burocratico di allora, eravamo quello che si chiamava intergruppo. Per la fanzine, il riferimento era più Stampa Alternativa o Samonà e Savelli o Re Nudo, quindi pubblicazioni fondamentali ma non di politica in senso stretto. Anche la musica spesso era politica in senso lato, poi c’era anche quella dichiaratamente politica: prendi il caso del colpo di Stato in Cile, con il fenomeno Inti Illimani e musica andina. Eravamo grandi appassionati di musica, alcuni di noi avevano un sacco di dischi: c’era molto rock, i Talking Heads, il Canterbury, il rock alternativo inglese. Crosby, Still, Nash & Young oppure la musica popolare, il nuovo canzoniere italiano. Poca black music. La nostra fanzine, Il morso, era una scusa per incontrarci a casa dei genitori, per discutere. Gran parte erano recensioni musicali, però c’erano temi diversi: per esempio, andammo a trovare dei compagni grandi anarchici che vivevano in una comune. Per noi era interessante parlare di queste persone che vivevano fuori dalla famiglia. Le avanguardie artistiche ci affascinavano, volevamo essere dadaisti e Il Morso rispecchiava questo: era un tema chiave del movimento del ’77 e lo ritrovavi anche nel punk e nella new wave inglese anni ’80.

R: Erano anni che c’era in giro di tutto, una rivoluzione nella qualità dei rapporti con se stessi e con gli altri. C’era tanto da valutare, rivalutare, osservare e noi fortunatamente osservavamo.

I Different Stylee a Villa Pallante.

S: Poi alla fine, confluimmo tutti quanti un po’ in un’organizzazione politica, prima Lega Comunista, poi Democrazia Proletaria. Con il nuovo decennio però sentivamo la politica sempre più lontana.

R: La sensazione era di non trovare risposte o strumenti nella pratica politica per quello che sentivi della realtà. Gli slogan erano forti ma a volte, nella vita concreta, ti accorgevi anche di tanta feccia che si nascondeva dietro il politico, nel privato delle persone. Lo slogan era: Il privato è politico. Noi probabilmente avevamo questo afflato, un bisogno di trasferire quello in cui credevi anche nella vita quotidiana: l’idea di un mondo diverso, di una modalità diversa di stare al mondo, di farne anche uno strumento di crescita. Quindi, probabilmente, questo ci ha staccato in parte dalla militanza e ci ha fatto trovare una strada nella musica, particolarmente nel reggae per la componente spirituale, della qualità umana. Avevamo bisogno di raccontare diversamente la storia: per noi risuonava molto il loro modo di percepire la realtà, il fatto di vivere insieme, di fare certe scelte alimentari, certe scelte di vita. Era un processo circolare, coerente con quello che era stato il nostro approccio alla militanza. La percezione che avevamo era di chiudere un cerchio: nella controcultura, tante idee sullo stile di vita in senso ampio esistevano già da anni, erano nell’aria. Ma erano un po’ soffocate dalla politica: una parte della dimensione umana veniva sacrificata. Nel reggae tutte queste cose si cantavano, le ritrovavamo molto affini, tranne magari il femminismo che soffriva un po’.

S: Anche l’aspetto spirituale ci interessava, lasciando perdere un po’ la parte dogmatica perché vedere il rastafarianesimo come un nuovo movimento da tesserati ci sembrava un passo indietro. Il reggae era molto sociale, politico: scoprire Linton Kwesi Johnson era una conferma che questa cosa che assorbivamo da lontano, in realtà era vicina. Quando abbiamo iniziato a incontrare i primi senegalesi e ivoriani, il reggae era un punto di contatto molto forte e uno di questi primi senegalesi di Bari era anche entrato nella band. Forse l’anno di Mr Babylon.

Disegno di Camillo Jimmy Fiorito, il nucleo originario dei Different: Sandro, Mimmo, Enrico e Antonella.

Che ricordo avete dei primi pezzi reggae ascoltati?

S: La prima volta vidi il reggae in televisione, grazie a Renzo Arbore. Poi iniziammo a cercare i dischi nei negozi: Marley, Peter Tosh. In Italia, la Ricordi si stampava tutto il catalogo della Island e della Virgin, le due major che realizzavano questi capolavori del reggae. Dopo arrivarono a Bari i negozi di importazione: ogni fine settimana facevo il giro di tutti i negozi, per vedere cosa si trovava. Diffondevo tutto ai miei amici, che ascoltavano altro ma restavano regolarmente colpiti dal reggae e diventavano proseliti.

Avevate iniziato come band punk?

S: No, partimmo da zero, solo Enrico suonava già prima e io strimpellavo un po’ la chitarra. Decidemmo di provare a fare una band, scegliendoci uno strumento per uno. Antonella voleva suonare il basso perché amava Tina Weymouth dei Talking Heads. La batteria era rimasta scoperta e la prese l’ultimo che non aveva ancora scelto niente. Dopo un po’ che provavamo a casa, alcuni amici ci invitarono nella loro sala prove. Avevano una band, i Mole: avevano preso il nome dai Matching Mole che erano un gruppo Canterbury. Così condividiamo il locale e iniziamo a suonare ogni sera con gli amplificatori e l’attrezzatura professionale. La difficoltà restava la voce e la batteria: iniziamo a cercare un batterista, ma non ci piaceva nessuno. Alla fine Enrico, che aveva un ottimo senso del ritmo, prova lui a suonare e via: trovato il batterista. Alcuni dei Mole pian piano iniziano a suonare con noi fin che diventiamo un gruppo solo. In particolare Gianluca Iodice fu essenziale per dare una svolta: un grande talento musicale con tante idee. Grazie a lui iniziammo a fare concerti, diciamo ’83-84, nel periodo dell’occupazione. Molti amici nei gruppi punk iniziavano a emergere a livello nazionale e volevamo seguirli.

Eravate anche attivisti?

R: Quando facemmo l’occupazione di quello spazio che poi chiamavamo Giungla fu un periodo intenso. Eravamo una bella schiera di punk di Bari e provincia, compagni e gente di estrema sinistra che appoggiava la cosa. Facevamo continuamente manifestazioni, cortei con la macchina, con le casse, con il reggae sparato. Ballavamo sotto il Comune, facevamo piccoli flash mob sul nucleare, su tutto quello che accadeva in giro nel mondo. Allo spazio occupato facevamo tutto. C’erano i concerti punk, abbastanza costantemente. Suonavamo con la band, poi Mimmo faceva anche la dancehall: ci alternavamo a canticchiare sulle basi. Le attività erano articolate, ad esempio facevamo cucina vegetariana. Lo spazio ci ha offerto parecchie opportunità in questo senso, è stato funzionale ad allargare il giro.

S: Perché là venivano delle persone di vario tipo ed entravano in contatto con il reggae, rimanevo coinvolti: prendi per esempio gli Struggle. Avevamo delle radio di riferimento dove andavamo a raccontare quello che succedeva: la nostra era Progetto Radio, una radio libera. La trasmissione era Ganja University: suonavamo Roots Radics, Scientist, rubadub e toaster, tutti i dub poet.

Dove prendevate i dischi?

S: Dub Vendor, arrivava il bollettino mensile e andavi a naso. Poi spulciavo le recensioni di Gianni Galli su Rockerilla e Giorgio Battaglia su Rockstar. Prendevamo soprattutto album, perché non esisteva il sound system, non ero un DJ.

Andavate a Londra?

S: Con la R4 di Enrico siamo andati a Londra due volte. La R4 era il nostro quartier generale, prima di avere la sala prove e poi la Giungla. Aveva un impianto della Madonna. Praticamente quando adocchiavamo uno giusto, lo chiamavamo: Vieni che ti facciamo sentire una cosa… Praticamente il tipo usciva dalla macchina trasformato. Battezzato. E diventava un fanatico del reggae, capito?

R: Andavamo al molo, con la macchina aperta e la musica sparata. Stavamo là sdraiati sulle barche. Sono stati anni felici a pensarci oggi. Facevamo tutto così, alla luce del sole: forse a quell’età non ci pensi proprio ai rischi. Cose illegali, fuori di testa. Forse anche i controlli erano minori o forse la linea era di lasciar sfogare i giovani senza ostacoli. Le autorità erano concentrare su altre vicende. Se penso alla casa dove abitavamo tutti insieme: anche un carabiniere scemo ci metteva un secondo a capire la situazione.

R: Ci girano da tutte le parti: Ma voi a noi ci volete prendere il culo, no?

S: Ma la polizia, lo Stato, avevano troppo a cui pensare… alla fine noi eravamo dei bravi ragazzi, rispetto a quello che era il clima dell’epoca. Anzi, questa enfasi sulle droghe leggere, ci ha salvato più di tutto. Qualcuno di noi lo dice spesso, che il reggae e la ganja gli hanno salvato la vita, lo hanno fatto diventare un’altra persona e uscire dalle storie di eroina. C’è qualcosa di terapeutico nel reggae, ho sempre pensato fosse il ritmo: con una sua perfezione, il basso e batteria mescolati in quel modo.

R: Un ordine, una pulizia, c’è qualcosa di speciale.

Quando avete iniziato a collegarvi e capire che c’era una scena italiana?

R: Dunque, produciamo una cassetta registrata con il Tascam, un quattro piste in sala prove: arrivò a Marco Provvedi a Roma. Non ricordo bene come.

S: Grazie al discorso delle fanzine, avevamo un po’ di contatti e li sfruttammo per far girare la cassetta e poi per iniziare con i concerti. Vidi sulla rubrica di Rockstar una recensione dei Puff Bong: in quel momento pensavamo di essere gli unici. Così scrissi a Giorgio Battaglia e gli mandai il materiale. Con Gianni Galli fu istintivamente un feeling che andava oltre: gli facemmo ascoltare la cassetta a Milano. All’epoca, quando c’era un concerto noi andavamo, erano rarissimi: partivi da Bari per un concerto a Milano. Mirco Melanco di Concerko organizzò a Brera Clint Eastwood e General Saint. Mi ricordo che c’era un tipo di fuori che aveva una carrozzina con un sistema stereo, metteva le cassette. Facciamo sentire la cassettina dei Different Style a Gianni, con l’impianto di questa carrozzina, lì alla serata. Gianni rimase scioccato, non pensava ci fossero gruppi reggae in Italia. Poi arrivò questa chiamata improvvisa da Provvedi a Roma: Sto organizzando un concerto… non so come ebbe il mio numero di telefono. Irie, Puff Bong e Jah Children Family Band. All’ultimo inserì anche noi, fu la nostra prima uscita nazionale per il Tributo a Bob Marley con le band italiane.

R: Prima di uscire con Live & Direct, gli Aswad avevano fatto tre serate al Carnevale. Eravamo stati su e avevamo registrato le cassette, eravamo in prima fila davanti al palco: facevano dub dal vivo, per noi la strada da seguire era quella. Si faceva così, una rivelazione. Ci eravamo studiati tutto, con i dub era anche più facile seguire gli strumenti. Quando arrivammo a Roma, tutti rimasero scioccati. Nel 1986, dopo Chernobyl, siamo stati al Leoncavallo per presentare il disco Mr Babylon. Pieno come un uovo. Noi ci sentivamo a casa: era il nostro stesso percorso. Quando arrivavamo, ci facevano trovare la cucina pugliese. Orecchiette con i cavoli. La prima volta per noi è stato scioccante, perché appunto avevamo avuto poche esperienze fuori da Bari.

S: Erano tutti shock progressivamente sempre più grossi, man mano che giravi per suonare. Ci chiama Vito War, che conoscevo da tempo, mi disse che stava organizzando il concerto e che eravamo ospiti a casa sua. Andiamo al centro sociale a provare, ci cucinano la pasta, buonissima: noi presi bene. Poi andiamo un attimo a casa sua a cambiare le cose, i genitori erano via, tutti i Different Style a casa sua. Torniamo per il concerto e vediamo fuori la fila: noi pensavamo fosse un altro concerto. Ci dicono che la fila era per noi, entriamo dentro: sala piena, striscioni dei Different Style. Avevamo appeal perché venivamo anche noi dalle occupazioni, vivevamo insieme: non è che fossimo dei geni musicalmente, i giovani e giovanissimi trovavano una comunione con noi.

R: Rappresentavamo qualcosa che riconoscevano: le nostre entrate con la banda, i trampolieri. facevamo cose che poi son diventate tipiche di musicisti grossi, come Capossela. Erano cose nuove, affascinanti, scene che facevano urlare la gente. Ci portavamo dietro un mondo che piaceva assai: è rimasto poco di questo aspetto che va oltre all’esecuzione. C’è un video online della prima edizione di Metarock a Pisa, 1985, headline erano i CCCP. Il pubblico ci fischiava perché voleva loro. Lì vedi una band che suona con vistosi errori, ma originale: c’era qualcosa di particolare, che rivedevi nella reazione del pubblico. Forse ci mettevamo quel guizzo che riusciva a fondere tante cose che avevamo assorbito. Per esempio, facevamo la world music, quando ancora non esisteva il concetto di world music: mischiavamo le canzoni napoletane, la tarantella, la musica latinoamericana. Grazie a Mimmo, ascoltavamo di tutto, anche la musica cubana, l’afro che iniziava ad arrivare nei negozi. Anche la serata di Mimmo in discoteca, a un certo punto venne rinominata Non solo reggae, era il martedì, verso metà anni ’80, a Poggiofranco.

S: Ero diventato DJ per caso: inizialmente, portavo io i dischi perché ne avevo tanti, ma li suonava un DJ dato che non ero capace. Però li vedevo mettere le dita sul vinile, cambiare tutte le velocità, metterli a cazzo. Poi un amico Dj mi propose di fare una serata e mi insegnò a mixare: da lì poi nacque la mia serata.

Come avete visto cambiare la scena italiana?

R: Quando è uscito il secondo vinile, quello con Serenata, sono cambiate un po’ di cose: avevamo già fatto uno salto rispetto al reggae canonico, cui la gente si era affezionata. Già avevamo questa contaminazione fortissima, era già in scaletta nei live. C’era per esempio il funk, ma in generale nei nostri concerti succedeva di tutto e questa cosa in certe situazioni poteva sconcertare. L’album era suonato bene ma l’appeal era diverso.

S: Tante cose che facevamo, non venivano capite: alla Giungla mettevo Grandmaster Flash e Sugarhill, Tommy Boy. Avevamo anche provato a fare hip hop dal vivo, ma ci dicevano che era musica da discoteca. Poi nei centri sociali si è creato veramente un circuito alternativo, con un suo pubblico e una sensibilità reggae. Inizialmente i centri sociali erano pochi: suonavamo di più per i Comuni e le istituzioni locali, per altre vie che ci erano stati aperte dalla visibilità sulle riviste musicali.

R: Avevamo la cooperativa Mole come interfaccia con le istituzioni: per metà lavorava con la compagnia teatrale e per metà con la band reggae, abitavamo insieme e tra le due anime c’era tanto scambio. Era nata così la parte più teatrali dei concerti. Per questi festival locali era funzionale uno spettacolo più vario, ma la nostra voglia di sperimentare non era sempre gradita ai nostri fan del reggae vero e proprio.

S: Quando è esplosa la cosa delle posse e il reggae è diventato più egemone come genere alternativo, noi avevamo già dato, volevamo altro. In quel momento sono arrivati Niù Tennici, Fratelli di Soledad, gli Africa unite sono diventati grossi, Almamegretta che erano in qualche modo quello che eravamo anche noi.

Archivistica, zine, università, documentari e sacelli ipogeici…

14 novembre 2023 1 commento

Questa settimana si chiude un cerchio: per una coincidenza di eventi tornerà il writing storico di Milano, in formati pronti per la storia, i freezer, i musei, tutto ridigerito in un loop perfetto dai nostri armadi verso i nostri armadi…

Con Paolo di Grafica Bambaataa ristampiamo il terzo numero di Trap, fanzine di writing che facevamo tra il 1992 e il 1994. Il numero è stato restaurato su impulso di Vandalo ed esce quasi tutto a colori, con un po’ di flyer di quel periodo e un racconto che permetterà ai veri nerd di seguirsi tutti i vari trip che avevamo nel cervello in quel periodo.

Grazie al prof Antonio Bonatesta di DIRIUM, venerdì siamo al DAMS dell’Università di Bari, insieme a Giuseppe u.net e Vanni, con cui abbiamo fatto e faremo un sacco di cose qui su Pezzate Passate. Preparatevi per una discreta botta di storia dell’hip hop pugliese. Dopo un panel di storici veri, racconteremo un po’ anche noi questioni di archivistica e documentazione: Giuseppe ha scritto molti libri sull’hip hop per Agenzia X e ha un archivio che prima o poi arriverà a una forma stabile che gli renda merito.

La settimana successiva scendono a Bari Francesco e Jennifer, che si laureano alla Scuola di cinema qui a Milano con un documentario sul writing milanese, visto però con gli occhi degli archivisti che collezionano materiale da quell’epoca iniziale. L’idea (da stra nerd) era nata un po’ per mano di Corrado e grazie al suo libro Buio Dentro. Nel loro lavoro ci sono un po’ tutti e non vedo l’ora di avere un link di preview per guardarlo. Al momento è ancora top secret, vi posto qualche frame.

Poi quel weekend, Dafne apre l’evento Sprint qui allo Spazio Maiocchi di Milano: è il loro festival dell’editoria indipendente e del libro d’artista. L’anno scorso ci ero stato e mia figlia mi ha detto: “Ecco padre, grazie, io voglio essere così!”. Quindi bene, avremo nuove zine anche dai miei discendenti entro pochi anni. Dafne presenta tra le altre cose un mega coffee table book sulle fanzine italiane: cataloga 100 titoli, tra i quali avrete l’onore di vedere noi delle fanzine di writing e i due titoli che, negli anni ’80, rappresentavano i media del roots reggae. Erano stampate a Savona e a Bari, poi si erano fuse in una superzine del reggae italiano. La scena ligure era guidata da Gianni Galli, tra l’altro lo sto aiutando a pubblicare un po’ di articoli e tape dal suo mega archivio personale (qui il suo weblog e qui tre tape molto rari di reggae italiano), relativi a un periodo leggermente anteriore a quello dell’intervista a Briggy Bronson. Su questo rimenete sintonizzate perché in materia di reggae abbiamo da dare…

Categorie:Bari, Milano

JOJOBA AFTERNOON – Bari a stare

9 febbraio 2023 2 commenti

1999.  Quadrato, pressoché l’unico produttore a Bari, almeno nel nostro giro, si trasferisce a casa mia a Pavia per uno stage da tecnico del suono a Milano. In quei giorni a Bari c’era un po’ di gente che  rappava, alcuni di noi avevano registrato il primo demo, altri amici scrivevano rime e facevano freestyle alle serate che si organizzavano dove capitava, senza pretese. 

Erano le stesse persone che avevano  preso l’abitudine di ritrovarsi di pomeriggio, dopo pranzo, a casa di Loop 5 per prendere il caffè e chiacchierare, situazione presto battezzata  Jojoba Afternoon da Move: jojoba era una delle sue parole tormentone. Jojoba Afternoon quindi  diventa una crew allargata, con dentro gli Hell’s Vastas e tutti i loro amici. A quel punto, contando sulla  presenza di Quadrato a casa mia, decido che bisogna far uscire un mixtape che rappresenti tutta la scena di Bari che conta. E decido che deve essere un vero collage, mia vecchia passione, un po’ per scelta, un po’ per necessità, dal momento che noi che dobbiamo metterlo insieme siamo lontani dalla gente che deve contribuire al progetto.

Quindi cominciamo a recuperare le registrazioni dei freestyle fatti alle serate, vogliamo metterne almeno uno per ciascun ospite della cassetta. Vengono fuori dei frammenti freschissimi, bellissimi,  ricordo ancora a memoria un freestyle di Rino  Loop 5,  “…e allor lass sta cost assa p te c ue angor non ue c ng ste u sind bun sop a cuss beat c fe nu chillum…”,  che stile…! Ricordo anche il freestyle di Nico Walino, che si chiude con lui che fa il vocione alla Mad Lion, che stile anche lui!   

Non avevo registrazioni di miei freestyle, ricordo di aver messo una base triphop abbastanza acida e di aver improvvisato qualcosa su quella, nel più assoluto solipsismo. C’è dentro un classico beatbox pazzo di MestMove. C’ è un pezzo dal demo dei Sabbie Mobili e un pezzo dal demo di Rino, A stare, un classico per tutti noi, un vero e proprio manifesto. Poi c’è anche  un pezzo di un discorso di Andrea Bee2, uno un po’ più grande di noi, saggio, che invita i bboys a essere uniti. Poi ci mettiamo dentro anche  2-3 pezzi brevi miei su beat miei e di Quadrato, che anticipano il mio primo demo registrato con lui, ce l’avevo lì da me e non volevo perdere l’occasione di rappare su basi originali anziché sulle solite strumentali americane.

Poi  inframmezziamo il tutto con pezzi rap americani, alcuni contemporanei, altri più old school, e con qualche pezzo reggae: Michael Rose e quel grezzone stiloso di Ranking Toyan, per via della fissa del rub a dub di quei giorni. Affidiamo gli scratch ad Argento, il nostro dj, che registra anche un suo rap. La copertina la facciamo fare a Giose che mastica già la grafica digitale, e sempre di Giose è la frase  registrata dal telefono col blaster in stile che più crudo non si può, utilizzata poi per confezionare l’esilarante  intro…

Questo ricordo mi dà l’occasione di salutare tutti gli amici che hanno  partecipato alla realizzazione di quel manifesto della scena hip hop barese dei ‘90, Giuan, BeeTwo, Quadrato, Crime, Walino, Argento, tutti gli altri JA e gli Hell’s Vastas, MestMove, Giose, Shaolin, Mimmo l’Elfo, Cos P,  Soap, Jeco What4, Argento e il più grande di tutti, Rino Loop 5 (RIP). Pace.

Grazie a Vanni/Creeda/Trabol per la release pazzesca del loro mixtape, onoratissimi.

Categorie:Bari, Mixtape