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Gianni Galli e Ital Reggae: 1972, Loano – Brixton andata e ritorno

22 febbraio 2024 Lascia un commento

Eccovi una nuova puntata della serie di racconti sulle origini del reggae in Italia. Nelle puntate precedenti abbiamo chiacchierato con Rosapaeda e Superbass da Bari, Mukandi Lal da Roma, Briggy Bronson da Savona e Vito War da Milano.

Come inizia la tua storia con il regggae?

Avevo appena finito il militare, una storia penosa per la gerarchia, per l’ambiente. Mi trovo a casa dai miei a Natale, si erano trasferiti in Liguria. Avevo 20 anni, 1972, non volevo restare a Loano e non mi piaceva neanche Milano, dove avevo studiato per un po’ di anni. Un amico stava partendo per qualche mese di studio a Londra, così decido di seguirlo. Londra era un mito, ci ho pensato forse 5 minuti in tutto. Ne parlo con i miei: dovevo stare due mesi per imparare l’inglese, mi hanno rivisto dopo 10 anni…

Abitavo a Brixton, che era il quartiere giamaicano. Lì non avevo la minima idea di cosa mi trovavo davanti. Ricordo che mi aveva colpito il mercato del sabato, era come essere ai Caraibi. Poi le macchine della polizia: avevano una protezione sul parabrezza, una griglia metallica. Poi ho capito il perché: i ragazzini arrivavano improvvisamente dalle strade laterali e lanciavano sassi sulle pattuglie, poi sparivano. La scalinata che sale dalla metropolitana: vedevi salire una donna con la borsa della spesa e un gruppo di bambinetti che le assaltavano, mettevano le mani dappertutto e scappavano. Era un posto molto particolare. I ragazzini venivano lasciati dai nonni in Giamaica, mentre i genitori si trasferivano per costruirsi una nuova vita in UK. Poi quando si erano sistemati, facevano venire i ragazzini, già grandicelli. L’impatto con il sistema scolastico era tremendo, per via del razzismo. Anche per questo i giamaicani non usavano l’inglese, mantenevano il patois in cui veniva scritta e recitata anche la dub poetry. In inglese non era proprio possibile per loro esprimersi veramente. Tieni conto che la tradizione nei Caraibi è tutta orale. La parlata si adattava benissimo al ritmo del reggae. Questo è l’aspetto che mi aveva sconvolto di più.

Quando hai iniziato a conoscere il reggae?

Gli inglesi che erano con me ascoltavano di tutto. In quartiere si ascoltava solo reggae, Brixton era uno dei quartieri storici della comunità giamaicana di Londra. Per me era stata la conversione sulla via di Damasco. Perché ero arrivato a Londra che ascoltavo rock West Coast, più un po’ di gruppi tipo i Pink Floyd: loro erano stati il mio primo concerto lì, Hammersmith Palais.  Poi ascolto Concrete jungle di Bob Marley, 1974 e da lì via con il reggae. Quando poi ho ascoltato Linton Kwesi Johnson è diventato un interesse viscerale.

E come hai conosciuto Linton Kwesi Johnson? Che anno era?

A Brixton c’era la sede di Race Today, il mensile della comunità caraibica. Avevo scoperto la rivista e Linton Kwesi Johnson allo squat dove abitavo. Avevamo il suo secondo album, quindi direi 1979: volermi interessare a lui è stata una cosa istintiva: ascoltato Sonny’s Letter, avevo già tutto nel cuore. Al che scopro che aveva già scritto due libretti di poesie e stampato il primo album. Non si era ancora incontrato con Dennis Bovell, non aveva registrato ancora pezzi famosi per il grande pubblico. Volevo assolutamente conoscerlo, così andai alla sede di Race Today. Era proprio uno scantinato, disordinatissimo, pieno di riviste e libri dappertutto. Avevo un portatile per registrare e lo trovai con l’impermeabile, il suo cappello che portava sempre. Mi squadrò la capo a piedi, chiedendomi cosa volessi? Era curioso, voleva capire chi fossi. Poi si deve subito esser reso conto che non avevo fini di lucro, che era proprio una passione. Tradussi le poesie con l’aiuto di amici giamaicani e con quell’intervista feci la prima trasmissione, a Radio Popolare con Marcello Lorrai. Ero tornato in Italia di passaggio, chiamai in radio e mi dissero di andare subito in studio a registrare. Io non me l’aspettavo, avevo provato a chiamare dalla stazione di Milano così senza aspettative. Avevano pochissimo reggae lì in radio, giusto qualcosa di Bob Marley. Le sue poesie sono state stampate per la prima volta in Italia da Marcello Baraghini, per la sua Stampa Alternativa. Sarà stato il 1982 o 1983, ero appena tornato da Londra. Lo chiamai e mi disse: Certo, facciamo 1000 copie. Tradussi tutto e il libretto andò a ruba. Oggi la figlia di un nostro fan, che suonava anche reggae a metà anni 80, ha scritto un libro su di lui. Ne sono usciti due molto belli in italiano di recente: Inglan is a bitch di Mara Surace e LKJ: Vita e battaglie del poeta del reggae di Sara Parolai.

Quando inizia a diffondersi il reggae in Italia?

Quando poi tornai in Italia nel 1982, mi portai tantissimi dischi da Londra. A Genova Nervi avevo una trasmissione in radio, la sede era nell’ospedale psichiatrico. Andavo in onda il sabato, quando non lavoravo. Avevo uno spazio di novanta minuti ma poi a volte facevo anche tre ore. La gente chiamava in diretta, mi chiedeva informazioni, si registrava le cassette: infatti cercavo di parlare il meno possibile sui pezzi. Nei notiziari, la radio riprendeva le piccole pubblicazioni dell’estrema sinistra, non era ben vista: una volta a Brignole mi fermò la Digos in borghese, anche come DJ eri comunque sospetto.

All’inizio, dato che non conoscevo nessuno qui in Liguria, con un ragazzo milanese che aveva una libreria a Finale Ligure avevamo organizzato una festa sulla cultura giamaicana. Non so come mi fosse venuto in mente. C’erano pannelli descrittivi della storia della Giamaica e tutto, chiaramente musica a manetta e anche la proiezione di uno dei primi film di Bob Marley. E lì ho conosciuto un gruppo di Savona, erano conoscitori del primo reggae, poco materiale ma tanta voglia di conoscere. E cominciamo così, nasce un’unione tra di noi e cominciamo a creare una fanzine, Ital Reggae, la facevamo con il ciclostile. Quasi un numero al mese, circa 200-250 copie, Nel frattempo, io avevo cominciato a collaborare come redattore di Rockerilla: il mio primo articolo fu London on the run nel 1982. Avevo un mio spazio mensile: profili degli artisti principali, reportage da concerti e feste del reggae italiano, recensioni delle nuove uscite. Poi i lettori della rivista mi scrivevano e diventavano abbonati della fanzine. Ital Reggae era il contatto vero con le persone, la parte più umana. La rivista ci dava visibilità e ci apriva la strada.

Sempre a Genova, con il gruppo teatrale Blok, avevamo affittato un teatro in disuso e facevamo concerti ogni settimana. Siamo nella prima metà degli anni ’80. Venivano i primi gruppi del reggae italiano: Pitura Freska, Irie con Papa Winnie, Puff Bong, Dub Trio, Different Style. Con i Dub Trio la storia è stata pazzesca. Tornavo da Milano in autostop verso la Liguria. Si ferma una macchina con la musica reggae a manetta, fuori da Arenzano. Io rimango lì stranito e gli dico Irie Man! Al che usciamo e andiamo in spiaggia insieme, scopro che erano i Dub Trio. Alla fine diventiamo amici.

Poi abbiamo iniziato a organizzare serate e concerti in giro: allo Hiroshima Mon Amour a Torino, al Leoncavallo con Vito, a Radio Sherwood perché mia sorella studiava a Padova. Lì avevamo organizzato alla Casa dello studente, una cosa memorabile con la Savona Posse e Fulvio Damonte che metteva i dischi. Abbiamo fatto dalle 8 di sera alle 4 del mattino, lo spazio era completamente libero. Ci saranno state 2000 persone, una bolgia. A Milano ricordo un concerto a Brera, erano venuti Clint Eastwood e General Saint, ci sono le foto sulla fanzine.

Per raccontartene una, io ho lanciato gli Africa United. Mi chiama sto ragazzino, Bunna, di Torino, Pinerolo. Hinterland torinese. Mi conosceva per Rockerilla e mi dice, senti… noi siamo un gruppo di Torino, Africa Unite. Vorremmo farti sentire quattro pezzi che abbiamo fatto. Ma ti spiace se vengo giù a farteli sentire? Così gli ho fatto una piccola recensione su Rockerilla, 1982. E siamo quarant’anni dopo… il 10 settembre scorso, qui alla fortezza del Priamar di Savona, Fabio è riuscito ad averla e hanno organizzato il concerto per il quarantesimo anniversario degli Africa Unite. 20 album di carriera, sono stati proprio tra i primissimi, una professionalità pazzesca sul palco. Io ho fatto la presentazione sul palco: millecinquecento persone, per Savona è già un bel numero.

Torniamo un attimo a Londra: dischi, radio, concerti?

I negozi di dischi che frequentavo io erano soprattutto nella zona di Portobello. C’era Dub Vendor, era proprio un baracchino, però dentro lì potevi passare anche ore, ci stavi tranquillo, il tipo al bancone continuava a mandare dischi. Loro ricevevano direttamente dalla Giamaica, di conseguenza erano sempre novità assolute.

Nelle feste private dei giamaicani non era così facile entrare: se non conoscevi, non era così scontato che ti vedessero volentieri. Però ti posso raccontare un aneddoto interessante. Io abitavo a Brixton in una di queste viuzze laterali dove tutte le casette sono uguali, hanno tutto il giardinetto di due metri quadri davanti. La porta ha sempre due riquadri di vetro che lasciano vedere attraverso. Nei primi tempi, avevo affittato una stanza da una coppia di italiani che erano lì dal dopoguerra, erano gli unici bianchi della strada. Una sera tornando a casa molto tardi dal lavoro al ristorante, ero senza chiavi, busso alla porta. Si accende la luce e vedo un’ombra che si avvicina, era un’ombra massiccia, strano. Mi si apre la porta e mi trovo un donnone giamaicano che mi dice: What you want man? Io resto di sasso. Poi ho visto il numero, era il numero 10 invece che 12 e la signora mi dice di andare avanti una porta. I modi di fare e l’atmosfera erano questi.

Un’altra sera tornavo a casa solo, sapevo che c’erano stati molti episodi di violenza contro i bianchi in quella zona. Arrivano quattro ragazzini più o meno della mia età, giamaicani. Quando mi sono a fianco, si allargano e mi trovo in mezzo. Io ero lì da poco, non capivo niente, però non mi guardavano con tanto amore. Allora cerco di farmi capire, loro si sono guardano tra di loro: Ah, Italian, okay, okay. Mi danno una pacca sulla spalla e mi lasciano andare. Non credo che sarebbe successo lo stesso se fossi stato inglese: all’epoca c’era molta tensione, molta, molta tensione. E per le feste private la storia era un po’ questa.

I concerti di reggae che seguivo erano quasi tutti nei college. I gruppi che andavano per la maggiore in Inghilterra erano Aswad, Misty in Roots, Steel Pulse, poi c’era il gruppo i Matumbi, che era il gruppo di Dennis Bovell. Gli Aswad erano seguiti anche da una grossa frangia di ragazzi bianchi, mentre Misty e Steel Pulse erano più per la comunità di colore.

La radio che andava per la maggiore era quella di David Rodigan, Capital Radio. Suonava per un pubblico allargato, perciò anche cose abbastanza facili e commerciali. Le cose più interessanti le sentivo dai ragazzi del posto, soprattutto quelli che arrivavano dalla Giamaica. E poi c’era il grande carnevale di Portobello, che era magico.

C’erano state le rivolte in quel periodo al Carnevale, ti ricordi qualcosa?

No, purtroppo non c’ero quando è successo. Portobello era vissuto, era anche un grande mercato dove c’era di tutto e a Ladbroke Grove, il quartiere limitrofo, i giamaicani li sentivano a casa loro, erano i padroni. Quell’anno lì, la presenza della polizia fu talmente esagerata che portò agli scontri,  scoppiarono dei casini enormi. Io non c’ero, non posso testimoniare visivamente, però anche sui giornali poi si vide il casino che era successo.

Sì, era stato proprio il periodo del massacro di New Cross, una delle poesie più emblematiche di LKJ era ispirata a questo episodio. New Cross è un quartiere londinese, a maggioranza chiaramente caraibica. Il National Front, che era il partito di estrema destra inglese, era molto presente. In una festa di ragazzini, vennero buttate delle bombe Molotov in casa e ci furono, mi sembra, 13-14 morti. Un disastro. La polizia cercò di archiviare subito la cosa dicendo che era stato un incidente, quando non era vero. Race Today organizzò una marcia pazzesca, migliaia e migliaia di persone che sfilarono nel quartiere proprio per ribadire che volevano giustizia per l’accaduto. La poesia di LKJ amplificò ancora di più la portata perché veramente i media avevano cercato di relegarlo alla cronaca locale, invece diventò una cosa enorme, molto grande, anche perché insomma quando si tratta di ammazzare dei ragazzini che stanno facendo una festa, mi sembra una cosa incredibile.

Quando andavi al Carnevale, il reggae era tutto roots, poi dopo è iniziato un po’ a cambiare.

Finché sono stato su io, il reggae era visto come molto mistico, roots, Burning Spear e artisti di questo genere. In quel periodo, il reggae non aveva ancora il rubadub: dopo ha iniziato a  commercializzarsi molto: si è anche propagato ai bianchi proprio per quello, perché si era addolcito, era diventato molto da dancehall, da ballo, da festa insomma. Mentre la parte mistica è una cosa più sentita in Giamaica, anche perché i ragazzini inglesi come Linton erano cresciuti in un altro contesto. Infatti lui, all’inizio, aveva fatto proprio un distinguo con il movimento rasta: Linton era per la coscienza politica. Poi, con gli anni, lui stesso ha ammesso che c’era una componente di misticismo e tutto, però lui la vedeva proprio come una lotta di classe. La sua canzone Sonny’s Lettah è proprio uno spaccato di vita quotidiana, i due ragazzini che sono alla fermata del bus, si ferma la pattuglia, la polizia comincia a rompere le scatole, chiede i documenti e tutto, nasce una colluttazione, uno reagisce e gli danno una mazzata in testa, l’altro finisce in galera accusato di omicidio. Queste erano cose che all’epoca si sentivano molto, quando si girava per Brixton la respiravi quest’aria: la polizia non andava tranquilla, girava con le macchine schermate perché era un attimo veder uscire 100-200 persone dalle vie laterali.

Photozine pictures @ Café Royal Books by Chris Miles + Peter Anderson

In quel periodo facevi avanti e indietro con l’Italia, com’era il tuo punto di vista tra i due paesi?

Sì, stavano nascendo i voli charter. Un amico mi parla di una nuova agenzia italiana di Londra, che serviva gli emigrati del dopoguerra, spesso nostalgici fascisti. Non so se ricordi il film di Alberto Sordi: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata. A Londra gli italiani avevano i loro luoghi di ritrovo, fermi nel tempo ai primi anni ’50. Spesso si parlava solo italiano, solo i figli avevano imparato mano mano l’inglese: gli emigrati originari non si erano integrati, la comunità era chiusa. Il Vaticano aveva strutturato una sua rete di parroci che serviva la comunità italiana e uno di questi preti aveva aperto un’agenzia di viaggio. Federation of Italian centers: come tesserato accedevi ai servizi di viaggio con i prezzi speciali dei charter cattolici. All’epoca ci volevano 24 ore per tornare in Italia in vacanza, con un charter in 2 ore eri a casa. Mi prendono per gestire i voli su Milano, che era la prima tratta. A Gatwick controllavo i passeggeri e poi da Malpensa tornavo indietro a Londra. Io ero un fricchettone: coda di cavallo, orecchini, per l’epoca non era scontato lavorare bene in Italia se ti presentavi così. A volte avevi i voli pieni a scendere e vuoti a risalire, anche secondo la stagionalità o per i giorni della settimana. Così spesso mi facevo qualche giorno a casa o chiamavo i miei amici italiani e li portavo su di nascosto quando c’erano posti liberi. Poi la situazione mi era scappata di mano, si era sparsa la voce, un casino. Mi aspettava la gente a Malpensa, mi assaltavano per avere un passaggio gratis. Ma il capo si fidava di me, rispetto ad altri ero uno serio, lavoravo sette giorni su sette. Lì ho visto cambiare il tipo di persone che viaggiavano. Man mano sono arrivati sempre più studenti e ragazzi giovani: davo consigli a tutti, ti lascio immaginare, mi divertivo un casino. Tutti erano più aperti, c’era voglia di conoscere. La mia generazione, se non eri coglione, avevi delle possibilità che non te le immagini neanche.

Tu eri mai stato in Giamaica all’epoca?

Era la mia fissa, il volo diretto costava un occhio dalla testa ma da Miami avevi dei prezzi stracciati. Però per andare via Miami, dovevi avere il visto per gli Stati Uniti. Allora faccio la trafila, vado all’ambasciata americana lì in centro a Londra, ti fanno compilare una montagna di documenti. Alla fine me l’hanno rifiutato: la paura era che i giovani poi si fermassero da clandestini negli Stati Uniti. Così mi trovo con un sacco di soldi, gli amici di casa mi parlano di loro amici in India. A me l’idea piaceva, mi interessava il viaggio: così parto. Magic bus, un double decker da Londra ad Atene. Se eri in anticipo sulla stagione, svernavi a Creta un mesetto. Atene, Istanbul, poi partivi con i mezzi locali: Ankara, Erzurum, arrivavi al confine iraniano, Tabriz, Tehran, Mashhad, poi confine afgano a Herat, poi Kandahar, Kabul, Khyber Pass, Peshawar, Lahore ed eri in India. Ho letto dei libri su quel viaggio che li avrei scritti cento volte io. Era una rotta: magari incontravi dei tizi a Istanbul e poi li rivedevi a Kabul e ancora nell’India del Sud dopo qualche mese. Lì imparavi a viaggiare, dovevi sbrogliartela da solo. Era fantastico.

L’Afghanistan che ho visto era prima dei Mujaheddin, un paese libero. Gente di montagna, alteri, gentili, gente molto sulle sue. Il Khyber è l’unico passo per l’Hindu Kush, un viaggio di 8-9 ore. Ti vedevi la famiglia afgana modello con il papà che si faceva lo svuotino con un nero assurdo, l’autobus era praticamente una nuvola unica. L’India del Sud è stata una cosa pazzesca: tanto poco mi son piaciuti il Pakistan e l’Iran, tanto l’India è stata una cosa bellissima. Poi lì eri un signore: nei quattro mesi che facevo via, spendevo un quarto di quello che avrei speso a Londra. Il primo ho fatto tutto il giro, il pericolo, sono sceso giù fino al Capo Comorino, tutti coi mezzi pubblici. Poi sono risalito e sono tornato dal Nord. Il secondo anno sono andato in aereo e mi son fermato qualche settimana a Goa, che era il posto per rilassarsi. Poi Sri Lanka un mese, poi Nepal un mese, poi sono tornato. Ma all’epoca era normale, era veramente una cosa normalissima da fare, se non eri un pirla. Là ho visto tanta gente che si faceva, ma che senso ha? Con due lire potevi fare il signore e Ma che cazzo? Tu hai mai letto Shantaram di Gregory David Roberts? Un libro fondamentale. Gli australiani facevano l’inverso di quello che noi facevamo. Loro partivano dall’Australia, si facevano Bali, Tailandia, Sri Lanka, tutti i posti dove potevi surfare. Poi risalivano l’India e tornavano, o si prendevano l’anno sabbatico e tornando dall’Europa facevano il giro inverso.

Poi c’erano i peggiori, spesso italiani e francesi, che andavano in India solo per farsi di eroina. Arrivavano direttamente a Bombay. Magari si erano fatti un po’ di canne a casa, ma niente a che vedere con il fumo che c’era in India. A Bombay arrivi in aeroporto, si apre il portellone: l’asfalto che sembra liquefatto. Poi fai mezz’ora in mezzo alle bidonville, arrivi a Bombay: un casino che non capisci neanche dove sei finito. La fumeria d’oppio sotto l’albergo. Tre settimane a fumare l’oppio… dovevano rimpatriarli per il buon merito dell’ambasciatore. Tornavano con la scimmia e cominciavano a farsi di eroina, perché qui l’oppio non lo trovavano. A Bombay, c’era una nave bellissima, un cargo che faceva Bombay-Goa, 24 ore sul mare. Partivi la sera, arrivavi la sera dopo. Era bellissimo, viaggiavi sul ponte della nave, un godimento. La mattina mi sveglio e mi trovo due romagnoli con l’ago nella vena. Ma cosa diavolo fai? Ma che senso ha?

In Italia, quando hanno cominciato a vendere la roba pesante, c’era Lotta Continua che dava fuoco ai bar dove si spacciava. Solo che davano fastidio alla mafia, per cui sono stati subito contrastati. Li hanno messi a tacere. La storia era tutta diversa.

Quindi poi com’è che tu ti sei aperto un po’ su tutta la musica black?

Ma diciamo che la passione per la musica etnica in generale è una cosa che mi ha sempre seguito, l’ho sempre avuta. Dal soul classico fino a incontri musicali che mi hanno cambiato la vita come Fela Kuti. Lo avevo visto dal vivo prima ancora di Africa 70. Era una figura leggendaria mito, aveva la Kalakuta Republic, un suo spazio totalmente autonomo dal Governo. Sua madre era una delle leader del movimento sindacale, fu scaraventata fuori dalla finestra della polizia.

Ma ero molto appassionato anche di letteratura africana, sono un grande lettore di scrittori nigeriani e di tutta l’Africa. Chinua Achebe, Ngũgĩ wa Thiong’o. Per me era un unico universo fatto di molte sfaccettature.

Poi dopo tu, alla fine, quand’è che ti sei allontanato dal giro reggae? Com’è che l’hai vissuto tutta la trasformazione?

Io ho abbandonato il reggae più che altro per motivi familiari. Nel 1988-89 ho dovuto fare una scelta e di conseguenza a poco a poco ho diradato le mie presenze. Negli anni 90 poi mi sono allontanato del tutto, non ho più seguito l’evoluzione della musica.

Leggete e scaricate i primi 7 numeri di Ital Reggae, grazie alle scansioni di Ranking Fabio della Groove Yard di Genova: Numero 1, Numero 2, Numero 3, Numero 4, Numero 5, Numero 6 e Numero 7.

Alle origini del reggae pugliese con Rosapaeda e Superbass

3 dicembre 2023 Lascia un commento

Eccovi una nuova puntata della serie di racconti sulle origini del reggae in Italia. Oggi siamo a Bari con i Different Stylee, original del reggae nostrano che ci trasportano in un fantastico viaggio negli anni ’80. Grazie 🤩

In che momento storico avete iniziato?

Superbass: Stiamo parlando del passaggio tra anni ’70 e ’80. Eravamo amici già prima di cominciare ad ascoltare reggae, avevamo 16 anni: facevamo anche una fanzine, era il ’76-77 e si chiamava Il morso.

Rosapaeda: Avevamo comunque dimestichezza con questa cosa della controcultura, in particolare le fanzine erano una pratica diffusa. Si ciclostilavano e spillavano nelle sedi dove si faceva attività politica, specie dell’estrema sinistra. Era una cosa normale.

S: Noi, nel nostro piccolo, avevamo posizioni diverse: c’era chi era anarchico, io ero scritto alla FGCI (la Federazione Giovanile Comunista Italiana, di cui poi strappai la tessera nel ‘77), poi c’era chi era più vicino alla Lotta Continua: nel linguaggio burocratico di allora, eravamo quello che si chiamava intergruppo. Per la fanzine, il riferimento era più Stampa Alternativa o Samonà e Savelli o Re Nudo, quindi pubblicazioni fondamentali ma non di politica in senso stretto. Anche la musica spesso era politica in senso lato, poi c’era anche quella dichiaratamente politica: prendi il caso del colpo di Stato in Cile, con il fenomeno Inti Illimani e musica andina. Eravamo grandi appassionati di musica, alcuni di noi avevano un sacco di dischi: c’era molto rock, i Talking Heads, il Canterbury, il rock alternativo inglese. Crosby, Still, Nash & Young oppure la musica popolare, il nuovo canzoniere italiano. Poca black music. La nostra fanzine, Il morso, era una scusa per incontrarci a casa dei genitori, per discutere. Gran parte erano recensioni musicali, però c’erano temi diversi: per esempio, andammo a trovare dei compagni grandi anarchici che vivevano in una comune. Per noi era interessante parlare di queste persone che vivevano fuori dalla famiglia. Le avanguardie artistiche ci affascinavano, volevamo essere dadaisti e Il Morso rispecchiava questo: era un tema chiave del movimento del ’77 e lo ritrovavi anche nel punk e nella new wave inglese anni ’80.

R: Erano anni che c’era in giro di tutto, una rivoluzione nella qualità dei rapporti con se stessi e con gli altri. C’era tanto da valutare, rivalutare, osservare e noi fortunatamente osservavamo.

I Different Stylee a Villa Pallante.

S: Poi alla fine, confluimmo tutti quanti un po’ in un’organizzazione politica, prima Lega Comunista, poi Democrazia Proletaria. Con il nuovo decennio però sentivamo la politica sempre più lontana.

R: La sensazione era di non trovare risposte o strumenti nella pratica politica per quello che sentivi della realtà. Gli slogan erano forti ma a volte, nella vita concreta, ti accorgevi anche di tanta feccia che si nascondeva dietro il politico, nel privato delle persone. Lo slogan era: Il privato è politico. Noi probabilmente avevamo questo afflato, un bisogno di trasferire quello in cui credevi anche nella vita quotidiana: l’idea di un mondo diverso, di una modalità diversa di stare al mondo, di farne anche uno strumento di crescita. Quindi, probabilmente, questo ci ha staccato in parte dalla militanza e ci ha fatto trovare una strada nella musica, particolarmente nel reggae per la componente spirituale, della qualità umana. Avevamo bisogno di raccontare diversamente la storia: per noi risuonava molto il loro modo di percepire la realtà, il fatto di vivere insieme, di fare certe scelte alimentari, certe scelte di vita. Era un processo circolare, coerente con quello che era stato il nostro approccio alla militanza. La percezione che avevamo era di chiudere un cerchio: nella controcultura, tante idee sullo stile di vita in senso ampio esistevano già da anni, erano nell’aria. Ma erano un po’ soffocate dalla politica: una parte della dimensione umana veniva sacrificata. Nel reggae tutte queste cose si cantavano, le ritrovavamo molto affini, tranne magari il femminismo che soffriva un po’.

S: Anche l’aspetto spirituale ci interessava, lasciando perdere un po’ la parte dogmatica perché vedere il rastafarianesimo come un nuovo movimento da tesserati ci sembrava un passo indietro. Il reggae era molto sociale, politico: scoprire Linton Kwesi Johnson era una conferma che questa cosa che assorbivamo da lontano, in realtà era vicina. Quando abbiamo iniziato a incontrare i primi senegalesi e ivoriani, il reggae era un punto di contatto molto forte e uno di questi primi senegalesi di Bari era anche entrato nella band. Forse l’anno di Mr Babylon.

Disegno di Camillo Jimmy Fiorito, il nucleo originario dei Different: Sandro, Mimmo, Enrico e Antonella.

Che ricordo avete dei primi pezzi reggae ascoltati?

S: La prima volta vidi il reggae in televisione, grazie a Renzo Arbore. Poi iniziammo a cercare i dischi nei negozi: Marley, Peter Tosh. In Italia, la Ricordi si stampava tutto il catalogo della Island e della Virgin, le due major che realizzavano questi capolavori del reggae. Dopo arrivarono a Bari i negozi di importazione: ogni fine settimana facevo il giro di tutti i negozi, per vedere cosa si trovava. Diffondevo tutto ai miei amici, che ascoltavano altro ma restavano regolarmente colpiti dal reggae e diventavano proseliti.

Avevate iniziato come band punk?

S: No, partimmo da zero, solo Enrico suonava già prima e io strimpellavo un po’ la chitarra. Decidemmo di provare a fare una band, scegliendoci uno strumento per uno. Antonella voleva suonare il basso perché amava Tina Weymouth dei Talking Heads. La batteria era rimasta scoperta e la prese l’ultimo che non aveva ancora scelto niente. Dopo un po’ che provavamo a casa, alcuni amici ci invitarono nella loro sala prove. Avevano una band, i Mole: avevano preso il nome dai Matching Mole che erano un gruppo Canterbury. Così condividiamo il locale e iniziamo a suonare ogni sera con gli amplificatori e l’attrezzatura professionale. La difficoltà restava la voce e la batteria: iniziamo a cercare un batterista, ma non ci piaceva nessuno. Alla fine Enrico, che aveva un ottimo senso del ritmo, prova lui a suonare e via: trovato il batterista. Alcuni dei Mole pian piano iniziano a suonare con noi fin che diventiamo un gruppo solo. In particolare Gianluca Iodice fu essenziale per dare una svolta: un grande talento musicale con tante idee. Grazie a lui iniziammo a fare concerti, diciamo ’83-84, nel periodo dell’occupazione. Molti amici nei gruppi punk iniziavano a emergere a livello nazionale e volevamo seguirli.

Eravate anche attivisti?

R: Quando facemmo l’occupazione di quello spazio che poi chiamavamo Giungla fu un periodo intenso. Eravamo una bella schiera di punk di Bari e provincia, compagni e gente di estrema sinistra che appoggiava la cosa. Facevamo continuamente manifestazioni, cortei con la macchina, con le casse, con il reggae sparato. Ballavamo sotto il Comune, facevamo piccoli flash mob sul nucleare, su tutto quello che accadeva in giro nel mondo. Allo spazio occupato facevamo tutto. C’erano i concerti punk, abbastanza costantemente. Suonavamo con la band, poi Mimmo faceva anche la dancehall: ci alternavamo a canticchiare sulle basi. Le attività erano articolate, ad esempio facevamo cucina vegetariana. Lo spazio ci ha offerto parecchie opportunità in questo senso, è stato funzionale ad allargare il giro.

S: Perché là venivano delle persone di vario tipo ed entravano in contatto con il reggae, rimanevo coinvolti: prendi per esempio gli Struggle. Avevamo delle radio di riferimento dove andavamo a raccontare quello che succedeva: la nostra era Progetto Radio, una radio libera. La trasmissione era Ganja University: suonavamo Roots Radics, Scientist, rubadub e toaster, tutti i dub poet.

Dove prendevate i dischi?

S: Dub Vendor, arrivava il bollettino mensile e andavi a naso. Poi spulciavo le recensioni di Gianni Galli su Rockerilla e Giorgio Battaglia su Rockstar. Prendevamo soprattutto album, perché non esisteva il sound system, non ero un DJ.

Andavate a Londra?

S: Con la R4 di Enrico siamo andati a Londra due volte. La R4 era il nostro quartier generale, prima di avere la sala prove e poi la Giungla. Aveva un impianto della Madonna. Praticamente quando adocchiavamo uno giusto, lo chiamavamo: Vieni che ti facciamo sentire una cosa… Praticamente il tipo usciva dalla macchina trasformato. Battezzato. E diventava un fanatico del reggae, capito?

R: Andavamo al molo, con la macchina aperta e la musica sparata. Stavamo là sdraiati sulle barche. Sono stati anni felici a pensarci oggi. Facevamo tutto così, alla luce del sole: forse a quell’età non ci pensi proprio ai rischi. Cose illegali, fuori di testa. Forse anche i controlli erano minori o forse la linea era di lasciar sfogare i giovani senza ostacoli. Le autorità erano concentrare su altre vicende. Se penso alla casa dove abitavamo tutti insieme: anche un carabiniere scemo ci metteva un secondo a capire la situazione.

R: Ci girano da tutte le parti: Ma voi a noi ci volete prendere il culo, no?

S: Ma la polizia, lo Stato, avevano troppo a cui pensare… alla fine noi eravamo dei bravi ragazzi, rispetto a quello che era il clima dell’epoca. Anzi, questa enfasi sulle droghe leggere, ci ha salvato più di tutto. Qualcuno di noi lo dice spesso, che il reggae e la ganja gli hanno salvato la vita, lo hanno fatto diventare un’altra persona e uscire dalle storie di eroina. C’è qualcosa di terapeutico nel reggae, ho sempre pensato fosse il ritmo: con una sua perfezione, il basso e batteria mescolati in quel modo.

R: Un ordine, una pulizia, c’è qualcosa di speciale.

Quando avete iniziato a collegarvi e capire che c’era una scena italiana?

R: Dunque, produciamo una cassetta registrata con il Tascam, un quattro piste in sala prove: arrivò a Marco Provvedi a Roma. Non ricordo bene come.

S: Grazie al discorso delle fanzine, avevamo un po’ di contatti e li sfruttammo per far girare la cassetta e poi per iniziare con i concerti. Vidi sulla rubrica di Rockstar una recensione dei Puff Bong: in quel momento pensavamo di essere gli unici. Così scrissi a Giorgio Battaglia e gli mandai il materiale. Con Gianni Galli fu istintivamente un feeling che andava oltre: gli facemmo ascoltare la cassetta a Milano. All’epoca, quando c’era un concerto noi andavamo, erano rarissimi: partivi da Bari per un concerto a Milano. Mirco Melanco di Concerko organizzò a Brera Clint Eastwood e General Saint. Mi ricordo che c’era un tipo di fuori che aveva una carrozzina con un sistema stereo, metteva le cassette. Facciamo sentire la cassettina dei Different Style a Gianni, con l’impianto di questa carrozzina, lì alla serata. Gianni rimase scioccato, non pensava ci fossero gruppi reggae in Italia. Poi arrivò questa chiamata improvvisa da Provvedi a Roma: Sto organizzando un concerto… non so come ebbe il mio numero di telefono. Irie, Puff Bong e Jah Children Family Band. All’ultimo inserì anche noi, fu la nostra prima uscita nazionale per il Tributo a Bob Marley con le band italiane.

R: Prima di uscire con Live & Direct, gli Aswad avevano fatto tre serate al Carnevale. Eravamo stati su e avevamo registrato le cassette, eravamo in prima fila davanti al palco: facevano dub dal vivo, per noi la strada da seguire era quella. Si faceva così, una rivelazione. Ci eravamo studiati tutto, con i dub era anche più facile seguire gli strumenti. Quando arrivammo a Roma, tutti rimasero scioccati. Nel 1986, dopo Chernobyl, siamo stati al Leoncavallo per presentare il disco Mr Babylon. Pieno come un uovo. Noi ci sentivamo a casa: era il nostro stesso percorso. Quando arrivavamo, ci facevano trovare la cucina pugliese. Orecchiette con i cavoli. La prima volta per noi è stato scioccante, perché appunto avevamo avuto poche esperienze fuori da Bari.

S: Erano tutti shock progressivamente sempre più grossi, man mano che giravi per suonare. Ci chiama Vito War, che conoscevo da tempo, mi disse che stava organizzando il concerto e che eravamo ospiti a casa sua. Andiamo al centro sociale a provare, ci cucinano la pasta, buonissima: noi presi bene. Poi andiamo un attimo a casa sua a cambiare le cose, i genitori erano via, tutti i Different Style a casa sua. Torniamo per il concerto e vediamo fuori la fila: noi pensavamo fosse un altro concerto. Ci dicono che la fila era per noi, entriamo dentro: sala piena, striscioni dei Different Style. Avevamo appeal perché venivamo anche noi dalle occupazioni, vivevamo insieme: non è che fossimo dei geni musicalmente, i giovani e giovanissimi trovavano una comunione con noi.

R: Rappresentavamo qualcosa che riconoscevano: le nostre entrate con la banda, i trampolieri. facevamo cose che poi son diventate tipiche di musicisti grossi, come Capossela. Erano cose nuove, affascinanti, scene che facevano urlare la gente. Ci portavamo dietro un mondo che piaceva assai: è rimasto poco di questo aspetto che va oltre all’esecuzione. C’è un video online della prima edizione di Metarock a Pisa, 1985, headline erano i CCCP. Il pubblico ci fischiava perché voleva loro. Lì vedi una band che suona con vistosi errori, ma originale: c’era qualcosa di particolare, che rivedevi nella reazione del pubblico. Forse ci mettevamo quel guizzo che riusciva a fondere tante cose che avevamo assorbito. Per esempio, facevamo la world music, quando ancora non esisteva il concetto di world music: mischiavamo le canzoni napoletane, la tarantella, la musica latinoamericana. Grazie a Mimmo, ascoltavamo di tutto, anche la musica cubana, l’afro che iniziava ad arrivare nei negozi. Anche la serata di Mimmo in discoteca, a un certo punto venne rinominata Non solo reggae, era il martedì, verso metà anni ’80, a Poggiofranco.

S: Ero diventato DJ per caso: inizialmente, portavo io i dischi perché ne avevo tanti, ma li suonava un DJ dato che non ero capace. Però li vedevo mettere le dita sul vinile, cambiare tutte le velocità, metterli a cazzo. Poi un amico Dj mi propose di fare una serata e mi insegnò a mixare: da lì poi nacque la mia serata.

Come avete visto cambiare la scena italiana?

R: Quando è uscito il secondo vinile, quello con Serenata, sono cambiate un po’ di cose: avevamo già fatto uno salto rispetto al reggae canonico, cui la gente si era affezionata. Già avevamo questa contaminazione fortissima, era già in scaletta nei live. C’era per esempio il funk, ma in generale nei nostri concerti succedeva di tutto e questa cosa in certe situazioni poteva sconcertare. L’album era suonato bene ma l’appeal era diverso.

S: Tante cose che facevamo, non venivano capite: alla Giungla mettevo Grandmaster Flash e Sugarhill, Tommy Boy. Avevamo anche provato a fare hip hop dal vivo, ma ci dicevano che era musica da discoteca. Poi nei centri sociali si è creato veramente un circuito alternativo, con un suo pubblico e una sensibilità reggae. Inizialmente i centri sociali erano pochi: suonavamo di più per i Comuni e le istituzioni locali, per altre vie che ci erano stati aperte dalla visibilità sulle riviste musicali.

R: Avevamo la cooperativa Mole come interfaccia con le istituzioni: per metà lavorava con la compagnia teatrale e per metà con la band reggae, abitavamo insieme e tra le due anime c’era tanto scambio. Era nata così la parte più teatrali dei concerti. Per questi festival locali era funzionale uno spettacolo più vario, ma la nostra voglia di sperimentare non era sempre gradita ai nostri fan del reggae vero e proprio.

S: Quando è esplosa la cosa delle posse e il reggae è diventato più egemone come genere alternativo, noi avevamo già dato, volevamo altro. In quel momento sono arrivati Niù Tennici, Fratelli di Soledad, gli Africa unite sono diventati grossi, Almamegretta che erano in qualche modo quello che eravamo anche noi.

I primi anni del reggae a Roma, raccontati da Mukandi Lal

29 novembre 2023 Lascia un commento

Ho incontrato Mukandi Lal per fare una puntata romana della serie di racconti sulle origini del reggae in Italia. Dopo Vito War a Milano e Briggy Bronson a Savona, ecco a voi un pezzo fondamentale direttamente dall’ashram Bhole Baba di Cisternino!

Vabbé, partiamo dall’inizio. La storia comincia con Rosario Casella: lavorando per il Murales, un’associazione culturale, Rosario si trovò a fare una tournée dei Misty in Roots. Siamo nel ’78 o ‘79, una cosa del genere. Rosario prese contatti con loro, poi andò in Inghilterra a incontrarli e scoprì la magia del reggae, la spiritualità di questa musica. E da lì comincia tutto.

Per me l’inizio è stato il Capodanno del ’79: fu lì che ascoltammo reggae in via Merulana, abitavamo lì Rosario ,Piero Francesco ed io (che poi in seguito è stata la prima sede della Good Stuff) e quella sera ascoltammo reggae tutta la notte, magia pura. Il primo disco reggae che ho avuto è stato Dread in a Babylon di U-Roy: lo trovai in un negozio di dischi usati, a via Cavour, e rimasi impressionato. C’era una serie di fotogrammi con U-Roy che fumava il chalice e, piano piano, veniva coperto dal fumo. In quel periodo me la passavo male e praticamente a casa mettevo ‘sto disco, lo giravo e rigiravo e mi dicevo… Ma che cazzo di musica è? Musica per i bambini, stranissima, una roba semplice, ripetitiva con le rime che sembravano nenie, mi era entrata in testa.

Alla fine dell’81, l’anno in cui morì Marley, cominciamo a suonare musica reggae. Rosario Francesco ed io incontriamo al Tube, uno scantinato organizzato come club, un tizio americano, un rasta, Charlie Burnham, violinista che aveva suonato un po’ con tutti gli artisti famosi americani, quella sera c’era lui con la moglie Crystal White, cantante jazz, che facevano un concerto con un gruppo di ragazzi che tentavano, senza successo, di suonare reggae Tra un tempo e l’altro, ci siamo buttati e gli diciamo.. che noi suoniamo reggae, vogliamo fare una jam session? E così alla fine dello spettacolo improvvisiamo insieme. All’epoca io suonavo la batteria, Rosario la chitarra e Francesco il basso. Lì, però, la formazione cambiò: Francesco si mise alla batteria, io alla chitarra e Rosario al basso; fu una bellissima jam session e dopo questa performance e prendiamo accordi con Charlie: nacque da lì la band “IDDEN CITY BAND” con Cristal e Charlie che si alternavano alla voce. Di li a poco fondammo la band “TUTTI FRUTTI”, Charlie Burnham al violino e voce, Rosario alla chitarra e voce, io, pur suonando la chitarra, passai alle percussioni, Francesco Camassa stava al basso, alle tastiere Pablo Sotiris. Dopo vari batteristi cambiati, nell’82 arrivò Julio Segovia. Charlie era di New York, Rosario di Napoli, Pablo portoghese, Julio argentino, io di Roma: ecco il perché di Tutti Frutti.

Con Rosario, Francesco Camassa e Piero Quaglietti giravamo per Trastevere con un radione, mettendo reggae in qualsiasi locale andassimo, toglievamo la musica che c’era e mettevamo la cassetta di reggae. Il Fonclea era uno dei locali che frequentavamo abbastanza spesso e anche lì ogni volta che arrivavamo cambiavamo la cassetta. I primi reggae party sono stati lì, ed a Piazza Trilussa, al fontanone in Trastevere: la sera andavamo con ‘sto radione in strada, ci trovavamo in piazza seguiti da un gruppetto di appassionati, la posse del quartiere San Paolo.

Avevamo fatto un po’ di concerti e il primo tributo a Bob Marley, al Tenda Spazio Zero a Testaccio. Una serata incredibile: aiutati da un amico,Chicco Ricci, e supportati da Lotta Continua che ci fecero il manifesto con la foto di Bob Marley a tutta pagina, e la notizia del tributo con i Tutti Frutti in concerto. Così ci ritrovammo a Testaccio con un paio di migliaia di persone fra cui Nicolini, che all’epoca era l’assessore alla cultura. C’era anche Tony Esposito, che mi fece i complimenti come percussionista e talmente tanta gente che si era bloccato il traffico in Via Galvani a Testaccio.

Nell‘81 avevamo messo su la Cooperativa “Avventurieri del Deserto di Mattoni” per poter partecipare ai programmi dell’Estate Romana, il nome ce lo diede un bambino: giravamo con la musica reggae a palla e ‘sto ragazzino, fa: “Ah, avventurieri del deserto dei mattoni” ci piacque e prendemmo il nome. Serviva un ente giuridico per poter lavorare con le istituzioni. Così per l’estate romana organizziamo Reggae Tour ’81 con l’Assessorato alla Cultura in quelle che possiamo definire le prime dancehall italiane. Le prime serate vere e proprie furono a Ostia, alla rotonda che sta alla fine di via Cristoforo Colombo, in luglio. Furono tre domeniche; poi visto e considerato che avevamo affittato l’amplificazione, andammo al Comune e in agosto facemmo una serie di concerti, di dancehall nei parchi romani. Praticamente al laghetto di Villa Borghese e Villa Lazzarone sulla via Appia, a Villa Celimontana, a Monteverde, al Parco di Villa Pamphili, ed in chiusura al Laghetto di Villa Ada. Fu un vero successo specialmente a Villa Ada per due giorni abbiamo fatto il pieno di gente: si pagava mille lire. Il Comune di Roma non ci dava una lira, però ci offriva gli spazi e i manifesti.

Rosario aveva contattato Giorgio Battaglia, che scriveva su Regganjah per Rockstar. Aveva una discografia incredibile e grazie a lui registriamo con un Revox, una quindicina di ore di musica, cinque bobine di roots. Avevamo preso in affitto un impianto di tremila watt fu li che  ci venne l’idea di continuare ,dopo la rotonda, la discoteca all’aperto nei parchi romani. Rosario si occupava della musica mentre Piero Quaglietti della logistica: lavorava al cinema quindi portava luci, generatore e quello che poteva servire.

Tramite Francesco Pintore, grafico dalle mille idee, avevamo rimediato un proiettore per le diapositive con due schermi: proiettavamo immagini di band, di bambini rasta, frasi di canzoni di Marley cose così. Francesco Pintore portò una lavagna luminosa dove in tempo reale scriveva frasi di canzoni ecc. A Villa Ada fu qualcosa di bellissimo: prima di noi c’erano balli degli anni ‘60 e tutto era un gran polverone, quando arriviamo noi facemmo bagnare la terra dal giardiniere e la sera era si respirava un’aria di festa. Pierino mise le luci negli alberi che una volta accesi erano gialli, rossi e verdi: un momento molto magico, magico veramente, fu davvero un’avventura!

Poi dopo altri due o tre concerti apriamo il primo concerto dell’estate Cagliaritana a Monte Urpinu, nel 1982. Un’esperienza incredibile: ci saranno state 10.000 persone, ingresso gratuito. Lì successe un mezzo casino perché ci arrestarono il batterista, era senza permesso di soggiorno. Alla fine, comunque, con il sindaco e l’assessore, riusciamo a fare il concerto.

L’anno successivo il tributo a Marley si fece in un piccolo locale all’Infernetto vicino a Casal Palocco. C’era un gruppetto di San Paolo, la Posse di San Paolo, che ci seguiva già da Trastevere e partecipava alle serate. Il primo tributo a Marley che riunì tutte le band italiane dell’epoca lo organizzai nel 1984, facendo il giro d’Italia incontrai personalmente le band spiegando il progetto e con gli Irie da Milano, i Puff Bong da Venezia, Jah Children Family Band da Catania, poco prima della data del festival mi telefonarono i Different Stylee da Bari si realizzo il terzo Tributo  a Marley; fu un grande concerto al Tendastrisce di via Cristoforo Colombo il primo festival di band italiane , vennero circa settecento persone un po’ da tutt’ Italia che seguivano il reggae. Da quel momento prendemmo contatti con varie realtà, Ras Caleb, Giudo Farella, lui aveva il club Kaya a Torre del Greco, poi Gianni Galli da Savona ed altri.

Nell’85 avevo aperto uno studio, Reggae & Roll, a Roma, più che altro era una sala prove, un ex studio di registrazione che io usavo come sala prove. Capitava anche che facessi piccole registrazioni volanti: demo per i gruppetti che venivano lì e che volevano avere la cassetta. Sempre nel 1985 ci fu il Festival Reggae Estate, progetto che avevo presentato all’Assessorato alla Cultura ma che mi fu letteralmente rubato dalla Cooperativa Stage. Comunque partecipammo con i concerti degli Irie e Different Stylee, un mercatino Rasta ed una mostra di quadri ispirati all’arte sacra Rasta, Mirco Melanco di Concerko, venne con un banchetto di dischi e questa fu la partecipazione al festival. Un simpatico episodio fu che mentre i Different stavano provando nello studio apparve Gregory che prese il microfono e lì il delirio vero, ai ragazzi che suonavano non sembrava vero. Poi, vista la Lambretta di Stefano “Post Man” Piccioni, volle fare un giro (c’è una foto che immortale il momento); conoscemmo anche Militant Barry e Jah Woosh, che in seguito invitammo in Italia per alcune performance.

Poi quando Concerko chiuse nell’85 incontro Fernando Pallone: anche lui un patito, aveva un po’ di dischi reggae. Amava soprattutto il dub. Insieme decidemmo di aprire una distribuzione di dischi, quindi apriamo la Good Stuff, a casa mia in via Merulana: la prima stanza diventò l’ufficio, la seconda era più o meno un salotto, nella terza c’erano tutti gli strumenti musicali, nell’ultima ci dormivo. Partimmo con due scatoloni che Fernando prese in Inghilterra, da Dub Vendor: due copie di ogni titolo. Aiutati da Gianni Galli, costruimmo un indirizzario e partì il passaparola. Piano piano, via Merulana iniziò a diventare un centro in cui tutti venivano a comprare i dischi. Ne passava di gente! Nel frattempo avevo preso contatti con varie comunità rasta italiane – prima tra tutte quella di Catania. C’era una comunità rasta a Crotone, noi a Roma eravamo 6-7 dread: facemmo pure un paio di reasoning dove leggevamo la Bibbia, meditavamo e facevamo un po’ di nyabinghi.

Immagini gentilmente prese da archivio di Fabrizio Laganà.

Arrivano le prime serate nei locali: il Camouflage di Testaccio, lo Uonna Club sulla Cassia: un locale punk, che è quello che abbiamo usato più a lungo, facevamo il giovedì. Fernando metteva i dischi, io stavo all’ingresso. All’inizio era soltanto reggae: roots, con un po’ di talk over, all’epoca si chiamava così poi è diventato fast style, fasting. Poi anche rap. Avevamo conosciuto qualche DJ l’anno prima: Militant Barry e Jah Woosh, che invitammo a fare una serata in un piccolo locale vicino a Piazza di Spagna. Fu la prima serata fatta con un DJ. Quindi cominciammo a prendere contatti con i vari DJ e piano piano cominciarono ad arrivare in tanti. Fu così che mi inventai la serata DJ Explosion: vennero Pato Banton, Papa Levi, Bike Dread , Mack B ed altrii artisti che portavamo in tournèe. Passavano tutti per Radio Onda Rossa che aveva un bel programma con Lampa Dread (Antonio Oristano) che conduceva le interviste gli artisti la chiamavano Pirate Radio e sono uscite cose memorabili… e la storia continuava.

Nell’81-82 suonavamo di più nei locali, poi dopo con Good Stuff la scena ha preso piede nei centri sociali. Forte Prenestino, Brancaleone, c’era il Camouflage che era una serie di caverne a Testaccio, a Monte dei Cocci. Comunque sì erano quelle le realtà che accoglievano il reggae… il Bandiera Gialla, un locale vicino Piazza Barberini: lì facevamo tutti i giovedì. Nei locali era diventato impossibile, facevi la prima serata la gente si faceva le canne e la seconda serata già non te la facevano fare. Per cui praticamente i centri sociali erano l’unico posto dove si poteva organizzare.

Che io mi ricordi, a un certo punto nell’86-87 c’erano i Long vehicle, mi pare di Cesena o dintorni. C’erano i Soul Rebel di Milano che erano amici degli Irie, gli Africa United che ancora sopravvivono con successo, si stavano comunque creando diverse band, e poi i primi DJ Biggy Bronson a Savona i Villa Ada Posse: erano i ragazzini che venivano alle prime serate reggae, a mezzanotte meno un quarto scappavano per prendere l’ultimo autobus e tornare a casa bellissimi! Le giovani leve che continueranno la storia del reggae Italiano.. La cosa bella di tutta la storia è che eravamo molto uniti, ci aiutavamo l’uno con l’altro c’era sinergia prendi per esempio Stevie Giant con Rasta Snob: era presente a tutti i concerti, le varie fanzine che distribuivamo Ital Soul, Dread Lion, Rebel Soul e la sua Rasta Snob. Ai concerti, ai festival, mettevo le band italiane di spalla: arrivavano duemila persone per veder Burning Spear e intanto conoscevano anche i Different Stylee, Africa United ecc.

Immagini gentilmente prese da archivio di Fabrizio Laganà.

Il circuito reggae si è evoluto prendendo contatto con chi comprava i dischi: chiedevo sempre se c’erano locali in zona e da lì nascevano le cose. Mandavo i manifesti, loro prendevano il contatto con i locali. Si creò un circuito, insomma: c’era Gianni a Savona, Carmelo Garofalo in con lui facevamo delle cose a Bergamo, a Napoli c’era Enzo Casella, a Bari i Different Stylee, a Torino c’era lo Hiroshima Mon Amour.

Presi accordo col Tendastrisce – stranamente me lo davano per un milione, quando l’affitto era di tre milioni e mezzo per tutti. Una volta al mese c’era una tournée di DJ, un altro mese c’era una tournée di un gruppo, cominciano a venire un po’ di personaggi importanti. Facemmo Aswad, I Jah Man, Mikey Dread, Dennis Brown, Wailers, Burning Spear, Linton Kwesi Johnson. A un certo punto – eravamo ormai fine anni ’80 – decidemmo di inventare un festival: Reggae Connection. Il primo anno venne Dennis Brown e lo portammo in tournée – a Milano al Rolling Stone, allo stadio di Mestre con Luciano Trevisan soprannominato Fricchetti. Lui poi è diventato il manager dei Pitura Freska e di Skardi.

Proprio allo stadio di Mestre, eravamo con Fricchetti, mi dicono che gli artisti avevano trovato del wurstel nell’insalata: la carne di porco per i rasta! Tieni presente che Dennis Brown girava con un tipo di nome Blacky, uno che aveva un guardia spalle che stava sempre nell’angoletto con un coltello in mano (avevo provato a scherzare con lui, ma uno dei musicisti mi aveva detto di stare attento, che era un assassino). Allora dico a Luciano di far partire il runner al volo per prendere del riso pilaf, arrivo dentro i camerini incazzatissimo, faccio una scenata davanti ai musicisti, poi prendo ‘sta pentola di insalata russa e la sbatto contro il muro, urlando come un pazzo. I musicisti commentano: «Cool man», mi dicono di stare tranquillo… Tutte le volte c’era un problema diverso. Al Pata Pata a Milano, suonava Mikey Dread. Quando andai alla SIAE a prendere i biglietti, ne chiesi 1000. Lì c’era un tale dottor Russo e mi dice che la sala è per 400 persone. La sera arriva il dottor Russo con la macchinetta per contare le persone. L’organizzatore era Francis Bissong e mi dice che Russo ha visto 100 biglietti strappati e 140 omaggi. Io ero su nei camerini con gli artisti, a farci i cannoni tranquilli, ad ammazzarci dalle risate. Gli dico di non preoccuparsi, di far sparire quelli della sicurezza. Vado giù e inizio a urlare contro Francis, a chiedere dov’era la sicurezza. Urlo che hanno aperto le porte di sicurezza e che mi sono entrate 200-300 persone senza biglietto che non so come fare a pagare la band, piano piano il dottor Russo molla e poi va via…

Nei primi tempi si affiancano una serie di persone, per esempio Sandrino, Prince Faster, che lavorava a Radio Popolare a Roma con DJ Master: loro erano già nel reggae da tempo a dire la verità. Poi Lampa Dread, che tuttora è definito il Father e diversi altri che ora non ricordo. Si era creato un circuito reggae: dal nord al sud, cominciavano a muoversi le cose. Abbiamo fatto anche una serie di festival africani: portammo Manu Dibango, Salif Keita, Youssou Ndour. Con la Good Stuff si era creata una situazione nella casa di via Merulana ci riunivamo spesso e volentieri, non solo per fumare: era un punto di riferimento per i primi africani di Roma. Un po’ un posto di pellegrinaggio. Ricordo un gruppo di danza tribale, Tete Domankoma, del Ghana invece del Senegal c’era Morì Tuané, che fece Takoma, con un gruppo di ballerine senegalesi. C’era pure un Elia: il cognome non me lo ricordo, i Tropical Sound, che era un gruppo di etiopi con un repertorio di Marley ed una cantante di Capoverde insomma: c’erano un bel po’ di situazioni, diciamo così.

Nell’88 andai in Giamaica, il mio primo viaggio in Giamaica! Qui mi comincia a cambiare un po’ la storia, in un certo senso. Ero stato per la seconda volta all’ashram di Cisternino, dopo aver incontrato il maestro Muniraji. Fatto sta che siamo a Montego Bay, arriva un uragano a 305 km l’ora: io suono il tamburo, e canto il mantra OM NAMAHA SHIVAYA tutta la notte e la mattina , quando usciamo, l’unica casa in piedi era la nostra perciò con la mia compagna decidemmo di andare in India a ringraziare Babaji, Haidakhan Baba manifestatosi nel 1970 nella Sacra Grotta di Herakhan (piccolo villaggio del Kumaoni) che come Maha Avatar è il Maestro dei Maestri. Di ritorno da questo viaggio, andai in profonda crisi: in India, con un lunghi, una copertella e un pugno di riso non mi mancava niente a Roma ufficio, distribuzione, concerti  mi mancava la terra sotto i piedi. Lì c’è stata la divisione tra la distribuzione e l’organizzazione degli spettacoli. Come distribuzione rimase la Good Stuff, sotto controllo di Fernando Pallone io invece mi occupavo dei concerti e nacque la GS Promotion, Good Stuff Promotion. Chiaramente si collaborava sempre insieme con Fernando, ma io non ero tanto un topo da ufficio, capito? Sono più una persona d’azione, mi devo muovere, devo fare qualcosa. L’odore dell’amplificazione calda, del palco… insomma, quel profumo lì. Per cui andammo avanti più o meno fino al ’93, quando chiusi l’agenzia e me ne andai in India. Cominciai a fare servizio, a frequentare gli ashram. Questo ha cambiato un po’ tutto.

Dopo il mio rientro dall’India, Filippo Giunta organizzatore del Festival Rototom mi invita ad Osoppo era il 2005. Li mi riprese la voglia di reggae che comunque portavo e porto sempre nel cuore e feci un disco “Semo Gente Normale” con testi in italiano; ne avevo già fatto uno di Mantra Indiani “Shanti Dance” e ne feci anche un secondo, in stile reggae “Cool Mantra”. Avevo preso una casa in campagna, dove c’era lo studio di registrazione, avevamo fatto lì Cool Mantra. Poi la situazione si è evoluta: le persone con cui lavoravo hanno cambiato direzione nella vita e lo studio è stato chiuso. Già c’erano i primi clash, con la gente che si ingiuriava: per me era scandaloso. Ogni tanto andavo a Radio Onda Rossa nel programma del del sabato “Dajie Pure Te” , ma quello che vedevo nel panorama reggae non era una cosa bella, era andata persa quella solidarietà  tra operatori, dj, c’era una continua competizione, veniva a mancare quel senso di fratellanza che all’inizio ci univa. Ho suonato con un po’ di band romane ma il richiamo dell’India è stato più forte. Ormai la mia vita si svolge qui all’ashram di Cisternino, dove sono il Presidente dell’Associazione e Vicepresidente della Fondazione. Il reggae mi rimane sempre nel cuore.

Ci sarebbe ancora tanto da dire su quegli anni , sulla passione che bruciava dentro di tutti noi che all’epoca promuovevamo la Reggae Music, ci saranno comunque altre occasioni per raccontarmi e raccontarci di quei giorni indimenticabili.  Su Youtube ho postato una song “The Veterans” che racconta in musica storia e personaggi dell’epoca. Un abbraccio a tutti i fratelli che hanno contribuito a questa storia.