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Archive for the ‘New York’ Category

Doze Green: recensione e prova d’ascolto

10 marzo 2024 Lascia un commento

L’altro giorno l’artista G. Spazio mi ha provocato con una traccia pazzesca. Doze Green rispetto a Joan Mirò: “Non so se tu hai presente la statua di Mirò che si trova sulla circonvallazione interna, quella che passa dietro San Babila e va verso via Manzoni. Ecco vedere quella statua ti fa comprendere Doze.” Senza saperlo, Giacomo ha colpito un punto nevralgico della mia psiche traballante: per anni quella statua mi era passata inosservata. E per altri lunghi anni, avevo cercato di capire il significato di un mostro surrealista nel pieno centro della Milano neoclassica. Un senso ci doveva essere.

Così mi sono arrovellato per un paio di giorni. Se Spazio mi diceva: “Il mondo di un artista visuale è complesso. Se alle spalle c’è non solo la necessità urgente di esprimersi, quello che non si vede è altrettanto interessante poiché imprime una direzione al suo lavoro.” Allora era imprescindibile e divertente scartabellare nell’invisibile. Giocare a fare il critico d’arte e pestare la testa nel muro, girellando al buio tra via Senato, Maiorca e il Caribe.

In superficie, il rebus è facile: le figure zoomorfe dei due artisti sono le stesse. Doze cita spesso le avanguardie di inizio secolo: è un dialogo tra artisti al di là dello spazio-tempo? È un campionamento rap che ha il sapore di omaggio e ruberia? O hip hop come avanguardia della società di oggi? È l’occhiolino al gallerista, per dare al pubblico un gancio di comprensione facile, un contesto di arte alta per uscire finalmente dalla cornice antiquata del writing? Chi lo sa, chi se ne importa. La questione è altra.

Una delle poche pagine web che descrive bene Doze è quella dell’esposizione Modulaciones della Colección Isabel & Agustín Coppel, in Messico e qui. “Per l’artista, il passaggio dalla strada alle gallerie non ha cambiato il significato del proprio lavoro: raccontare le storie degli oppressi e l’incertezza della loro vita.” Fin qui tutto normale. Ritrovo lo stesso significato nella statua di Mirò, dal ciclo del Re Ubu con cui aveva dipinto la dittatura franchista. Nella Collezione permanente della Fondazione Arnaldo Pomodoro si definisce quintessenza della cultura “contro”.

Ma il Re Ubu surrealista era una liberazione dalle convenzioni sociali, una fuga dal mondo soffocante dell’Europa moderna che stava perdendo di senso. Gli strumenti erano l’assurdo, l’allucinazione, il sogno. È qui che Doze Green diventa altro, grazie alla sua preziosa esperienza nera. La scheda sul sito messicano continua: “Così, nelle sue opere sono presenti figure che corrispondono a esseri di antiche civiltà e culture indigene, comprese le sue radici afro-caraibiche. A volte queste figure emergono in contesti apparentemente futuristici, con messaggi che mirano ad attivare il potenziale della sua comunità.”

Doze non ha da fuggire, i canoni della sua cultura afrodiscendente sono qualcosa di sacro, da proteggere e comunicare, utile a fondare la scoperta del nostro futuro. Forse potremmo definirlo Rasta: il sistema capitalista di Babylon è un’immane orrore, ma come nemico diventa un nostro limite. Meglio abbandonarlo tout court: c’è una ricchezza infinita cui attingere nel cosmo. Non c’è una liberazione da raggiungere: è già raggiunta, nelle Sacre scritture si chiamava Revelation. “The gates of Zion are open wide, so won’t you come inside,” come diceva Junior Byles. Certo, magari è più facile capirlo in una fattoria autosufficiente in qualche campagna americana.

I surrealisti volevano andare oltre alla metafisica e per questo si erano inventati la patafisica. Era il loro strumento critico verso un mondo accademico rigido e stantio, la scienza delle soluzioni immaginarie. Doze la soluzione la ha già in mano, la metafisica è perfettamente sufficiente. Il campo di gioco di Mirò è teatrale, quello di Doze è cerimoniale: sogno e follia diventano, per nostra fortuna, sogno e magia. I galleristi amano parlare dei suoi teriantropi, gli uccelli umani che officiano alla trance comunicativa tra i diversi mondi, nelle religioni della diaspora africana. I paroloni dell’antica Grecia nobilitano tanto, ma non ci servono a niente. Basterebbe parlare di più di queste linee bianche che connettono le sue figure: sono l’energia invisibile che ci lega tutti? Io credo di sì.

I’m playing art critic for fun: aerosol art and its descendants apparently are not that well covered online, so I feel there’s some room to experiment. Above is a tribute selection by Cyrus, below is some machine translation of my piece.

Yesterday, fellow artist G. Spazio provoked me with a crazy hint. Doze Green & Joan Miró: “I don’t know if you’re aware of the statue by Miró that is on the inner ring road, the one that goes behind San Babila and goes toward Via Manzoni. That statue makes you understand Doze.” Without knowing it, Giacomo hit a nerve in my shaky subconscious: for years that statue had gone unnoticed while passing by. And for many more years, I had strived to understand the meaning of a surrealist monster in the middle of neoclassical Milan. Some meaning there had to be.

So I racked my brains for a couple of days. If Spazio told me, “The world of a visual artist is complex. Behind the artist, there’s not just an urgent need for expression, what is unseen is just as interesting because it imparts a direction to his work.” At that time it was for me inescapable and fun to scrabble in the invisible. Playing art critic and hit your head on the wall, while wandering in the dark between via Senato, Majorca and the Caribbean.

On the surface, the puzzle is easy: the zoomorphic figures of the two artists are the same. Doze often cites the turn-of-the-century avant-garde: is this a dialogue between artists, beyond space-time? Is it rap sampling that has the flavor of homage and piracy? Or hip hop as cultural avantgarde? Is it a wink to the gallerist, something to give the audience an easy understanding and a high art context, to finally break out of the antiquated framework of aerosol writing? Who knows, who cares. This is not our main question mark.

One of the few web pages that describes Doze well is that of the exhibition Modulaciones at Colección Isabel & Agustín Coppel in Mexico. ” For the artist, the change from producing his art on the street to taking it to galleries has not changed the meaning of his work, which tends to tell the stories of oppressed people and the uncertainty of their lives.” So far so normal. I find the same meaning in Miró’s statue from the King Ubu cycle with which he had painted the Franco dictatorship. In the permanent collection of the Arnaldo Pomodoro Foundation it is called quintessence of counterculture.

But the Surrealist’s King Ubu was a liberation from social conventions, an escape from the suffocating world of modern Europe that was losing its sensemaking abilities. The tools were the absurd, hallucination, dreams. It is here that Doze Green becomes something else, and his invaluable black experience is of the essence. The Mexican exhibition site continues, “Thus, in his work there are figures who correspond to beings from ancient civilizations and indigenous cultures, including his own Afro-Caribbean roots.  Sometimes —as is the case with Rock the World— these figures emerge in seemingly futuristic contexts, with messages that aim to activate the potential of his community.”

Doze has no need for escapism; the canons of his Afrodescendant culture are something sacred, to be protected and communicated, useful in grounding the discovery of our common future. Perhaps we could call it Rasta: the capitalist system of Babylon is a big disgrace, but as an enemy it becomes our limitation. Better to abandon it tout court: there is infinite wealth to draw in our cosmos. There is no liberation to be achieved: it is already achieved; in the Holy Scriptures it was called Revelation. “The gates of Zion are open wide, so won’t you come inside,” in the words of Jamaican singer Junior Byles. Of course, maybe it is easier to understand when you’re living on a self-sufficient farm somewhere.

The Surrealists wanted to go beyond metaphysics, so they came up with pataphysics. It was the critical tool to oppose a rigid and stale academic world, it was the science of imaginary solutions. Doze already has the solution at hand; metaphysics is perfectly sufficient. Miró’s playing field is theatrical, Doze’s is ceremonial: dream and madness become, luckily, dream and magic. Gallerists love to talk about his therianthropes, the human birds who officiate at the communicative trance ceremonies between different worlds, in the religions of the African diaspora. Using the high sounding words of ancient Greece ennobles so much, but it does us no good. It would suffice to talk more about these white lines that connect his creatures: are they the invisible energy that binds us all? I believe they are.

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Dr. Revolt RTW: la prova d’ascolto di Pezzate Passate

23 febbraio 2024 Lascia un commento

Pezzate Passate è un po’ un bloc notes di appunti e formati: nei giorni scorsi ho proposto a Cyrus e Vanni una nuova idea: recensione di un treno, fatta con le canzoni che ci vengono in mente. Poi ci ho aggiunto un pezzullo modellato sulle mie fisse del New Journalism (volevo rifare una recensione rock anni ’70 alla Rock Back Pages, tipo questa e questa), è un po’ sopra le righe e fuori contesto ma cercherò di mettere a fuoco sta cosa col tempo. Eccovi quindi un pezzo a testa: Cyrus, Vandalo, poi io e poi Vanni.

New York è sporca, i tombini fumano. Il 9 febbraio è la giornata degli Alligatori da fogna: la leggenda dice che sotto le strade è pieno. L’unica maniera di affrontarla New York, è con la velocità. Se stai fermo sei finito: il pattume ti contagia, ti mangia, fai la muffa. Sarà per quello che arrivi in città e dopo due giorni ti chiedi che cazzo stai facendo nella vita, perché non corri anche tu come un matto verso un infinito che non ci sarà mai (va bé, il sogno americano è come la lotteria: uno su un milione vince). Somma pattume, sottosuolo e velocità: ottieni l’aerosol art. In più c’è giusto quel minimo di istinto di sopravvivenza e stile, senza il quale la vita fa schifo. Eccoci: Revolt, Rolling Thunder Writers. Se usi i colori pastello, ci metti un po’ di verde marcio: sta in basso, forse è muffa che sale dai binari, ti ricorda le radici. Stasera si va a ballare, week end in spolvero, ci stanno pure due botte belle asciutte. Gin, vodka: in giro tira la New Wave, il Post Punk. Il rum per stasera lasciamolo stare. Il bourbon pure, teniamolo per quando si va dai nonni in campagna. Finestrini abbassati, macchina sportiva: la Ferrari 308 GTSi gialla di Miles Davis sarebbe veramente perfetta.

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Lignaggi del writing: i tris old school di Giose

14 febbraio 2024 Lascia un commento

Il mese scorso ho provato un format con il post Genealogia di uno stile: il bars’n’arrows di Spyder7. Oggi vi propongo un intervento di Giose Hell’s Vastas con un approccio un po’ diverso e molto divertente. Ecco il racconto del suo esperimento con gli alberi genealogici dell’aerosol art.

Se c’è una cosa che mi ha sempre affascinato è che nel writing non ci sono certezze. Forse è questo il segreto della sua longevità, del suo mistero che tanto ci ha attratto da ragazzini. La sua verità è un puzzle, ha tanti piccoli tasselli, non puoi sollevarla con una mano, i pezzi vanno mantenuti assieme.

Son sempre stato nel trip di capire come le storie abbiano creato ulteriori storie. Ho elaborato mie personali teorie sull’estetica del writing: lo stile estetico è la prima cosa… difficile ricordarsi di qualcuno senza stile. Allora da anni teorizzo di come Mister X, abbia preso da Mister Y, per poi conoscere Mister Z… and so on. La storia va avanti.

Discutendo con il vecchio amico editor di Pezzate passate, abbiamo pensato di provare a collegare 50 anni di storia. Magari con nomi poco citati, ma di quelli che io prediligo… gli under rated. Ho una lista enorme di nomi mai citati che hanno creato capolavori… spesso dibattuta con amici di NY, ma personale e parziale: è la base del lavoro che facciamo su Instagram con IZM (e del numero 2 di Check your head, che esce dopo 27 anni).

La prima tris di foto d’archivio sono 3 nomi legati da un percorso estetico: forme, colori e tratto. Slave, partner del più famoso Lee, un writer poco citato nel classico schema da Sussidiario che spesso ci propinano. Siamo a metà anni ’70. Un writer capace di creare incastri con un certo movimento, che poi qualche anno dopo avranno influenzato anche inconsapevolmente il pezzo celeste di Chain3 TMT del 1978, un altro maestro del flowing, un riferimento per tanti, anche lui poco citato. Il loro approccio tornerà in tanti writers successivi: Seen e Yes, per citarne due. Lo stesso flusso magico d’energia arriva a Rens di Copenhagen, un martello nei primi anni ’90. Ma l’avrei potuto collegare al mio amico Serch e a tanti altri writer pieni di talento.

Secondo set con Padre 2, siamo nel 1977, TDS crew. Poi T Kid, circa 1982, TNB crew. Terzo pezzo di Jay BBC, membro originale della crew BBC, siamo a metà anni ’90). Praticamente quel giro, diciamo Padre e Bear, ma un po’ tutti i TDS erano famosi per quelle grazie un po’ tondeggianti che chiudevano la lettera, come il serif nei font classici. Erano tipiche dei primi anni ’70, le faceva Cliff per dire. T Kid aveva preso queste grazie e le allungava: invece che fare lo stick angolare lui le faceva così. Da lì si era creata la scuola di Berlino, con queste grazie un po’ tondeggianti. Phos 4 e Odem, Amok: avevano iniziato i ricciolini con le grazie finali attingendo da T Kid e da Jay, che in quel periodo era a Berlino.

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