Doze Green: recensione e prova d’ascolto

10 marzo 2024 Lascia un commento

L’altro giorno l’artista G. Spazio mi ha provocato con una traccia pazzesca. Doze Green rispetto a Joan Mirò: “Non so se tu hai presente la statua di Mirò che si trova sulla circonvallazione interna, quella che passa dietro San Babila e va verso via Manzoni. Ecco vedere quella statua ti fa comprendere Doze.” Senza saperlo, Giacomo ha colpito un punto nevralgico della mia psiche traballante: per anni quella statua mi era passata inosservata. E per altri lunghi anni, avevo cercato di capire il significato di un mostro surrealista nel pieno centro della Milano neoclassica. Un senso ci doveva essere.

Così mi sono arrovellato per un paio di giorni. Se Spazio mi diceva: “Il mondo di un artista visuale è complesso. Se alle spalle c’è non solo la necessità urgente di esprimersi, quello che non si vede è altrettanto interessante poiché imprime una direzione al suo lavoro.” Allora era imprescindibile e divertente scartabellare nell’invisibile. Giocare a fare il critico d’arte e pestare la testa nel muro, girellando al buio tra via Senato, Maiorca e il Caribe.

In superficie, il rebus è facile: le figure zoomorfe dei due artisti sono le stesse. Doze cita spesso le avanguardie di inizio secolo: è un dialogo tra artisti al di là dello spazio-tempo? È un campionamento rap che ha il sapore di omaggio e ruberia? O hip hop come avanguardia della società di oggi? È l’occhiolino al gallerista, per dare al pubblico un gancio di comprensione facile, un contesto di arte alta per uscire finalmente dalla cornice antiquata del writing? Chi lo sa, chi se ne importa. La questione è altra.

Una delle poche pagine web che descrive bene Doze è quella dell’esposizione Modulaciones della Colección Isabel & Agustín Coppel, in Messico e qui. “Per l’artista, il passaggio dalla strada alle gallerie non ha cambiato il significato del proprio lavoro: raccontare le storie degli oppressi e l’incertezza della loro vita.” Fin qui tutto normale. Ritrovo lo stesso significato nella statua di Mirò, dal ciclo del Re Ubu con cui aveva dipinto la dittatura franchista. Nella Collezione permanente della Fondazione Arnaldo Pomodoro si definisce quintessenza della cultura “contro”.

Ma il Re Ubu surrealista era una liberazione dalle convenzioni sociali, una fuga dal mondo soffocante dell’Europa moderna che stava perdendo di senso. Gli strumenti erano l’assurdo, l’allucinazione, il sogno. È qui che Doze Green diventa altro, grazie alla sua preziosa esperienza nera. La scheda sul sito messicano continua: “Così, nelle sue opere sono presenti figure che corrispondono a esseri di antiche civiltà e culture indigene, comprese le sue radici afro-caraibiche. A volte queste figure emergono in contesti apparentemente futuristici, con messaggi che mirano ad attivare il potenziale della sua comunità.”

Doze non ha da fuggire, i canoni della sua cultura afrodiscendente sono qualcosa di sacro, da proteggere e comunicare, utile a fondare la scoperta del nostro futuro. Forse potremmo definirlo Rasta: il sistema capitalista di Babylon è un’immane orrore, ma come nemico diventa un nostro limite. Meglio abbandonarlo tout court: c’è una ricchezza infinita cui attingere nel cosmo. Non c’è una liberazione da raggiungere: è già raggiunta, nelle Sacre scritture si chiamava Revelation. “The gates of Zion are open wide, so won’t you come inside,” come diceva Junior Byles. Certo, magari è più facile capirlo in una fattoria autosufficiente in qualche campagna americana.

I surrealisti volevano andare oltre alla metafisica e per questo si erano inventati la patafisica. Era il loro strumento critico verso un mondo accademico rigido e stantio, la scienza delle soluzioni immaginarie. Doze la soluzione la ha già in mano, la metafisica è perfettamente sufficiente. Il campo di gioco di Mirò è teatrale, quello di Doze è cerimoniale: sogno e follia diventano, per nostra fortuna, sogno e magia. I galleristi amano parlare dei suoi teriantropi, gli uccelli umani che officiano alla trance comunicativa tra i diversi mondi, nelle religioni della diaspora africana. I paroloni dell’antica Grecia nobilitano tanto, ma non ci servono a niente. Basterebbe parlare di più di queste linee bianche che connettono le sue figure: sono l’energia invisibile che ci lega tutti? Io credo di sì.

I’m playing art critic for fun: aerosol art and its descendants apparently are not that well covered online, so I feel there’s some room to experiment. Above is a tribute selection by Cyrus, below is some machine translation of my piece.

Yesterday, fellow artist G. Spazio provoked me with a crazy hint. Doze Green & Joan Miró: “I don’t know if you’re aware of the statue by Miró that is on the inner ring road, the one that goes behind San Babila and goes toward Via Manzoni. That statue makes you understand Doze.” Without knowing it, Giacomo hit a nerve in my shaky subconscious: for years that statue had gone unnoticed while passing by. And for many more years, I had strived to understand the meaning of a surrealist monster in the middle of neoclassical Milan. Some meaning there had to be.

So I racked my brains for a couple of days. If Spazio told me, “The world of a visual artist is complex. Behind the artist, there’s not just an urgent need for expression, what is unseen is just as interesting because it imparts a direction to his work.” At that time it was for me inescapable and fun to scrabble in the invisible. Playing art critic and hit your head on the wall, while wandering in the dark between via Senato, Majorca and the Caribbean.

On the surface, the puzzle is easy: the zoomorphic figures of the two artists are the same. Doze often cites the turn-of-the-century avant-garde: is this a dialogue between artists, beyond space-time? Is it rap sampling that has the flavor of homage and piracy? Or hip hop as cultural avantgarde? Is it a wink to the gallerist, something to give the audience an easy understanding and a high art context, to finally break out of the antiquated framework of aerosol writing? Who knows, who cares. This is not our main question mark.

One of the few web pages that describes Doze well is that of the exhibition Modulaciones at Colección Isabel & Agustín Coppel in Mexico. ” For the artist, the change from producing his art on the street to taking it to galleries has not changed the meaning of his work, which tends to tell the stories of oppressed people and the uncertainty of their lives.” So far so normal. I find the same meaning in Miró’s statue from the King Ubu cycle with which he had painted the Franco dictatorship. In the permanent collection of the Arnaldo Pomodoro Foundation it is called quintessence of counterculture.

But the Surrealist’s King Ubu was a liberation from social conventions, an escape from the suffocating world of modern Europe that was losing its sensemaking abilities. The tools were the absurd, hallucination, dreams. It is here that Doze Green becomes something else, and his invaluable black experience is of the essence. The Mexican exhibition site continues, “Thus, in his work there are figures who correspond to beings from ancient civilizations and indigenous cultures, including his own Afro-Caribbean roots.  Sometimes —as is the case with Rock the World— these figures emerge in seemingly futuristic contexts, with messages that aim to activate the potential of his community.”

Doze has no need for escapism; the canons of his Afrodescendant culture are something sacred, to be protected and communicated, useful in grounding the discovery of our common future. Perhaps we could call it Rasta: the capitalist system of Babylon is a big disgrace, but as an enemy it becomes our limitation. Better to abandon it tout court: there is infinite wealth to draw in our cosmos. There is no liberation to be achieved: it is already achieved; in the Holy Scriptures it was called Revelation. “The gates of Zion are open wide, so won’t you come inside,” in the words of Jamaican singer Junior Byles. Of course, maybe it is easier to understand when you’re living on a self-sufficient farm somewhere.

The Surrealists wanted to go beyond metaphysics, so they came up with pataphysics. It was the critical tool to oppose a rigid and stale academic world, it was the science of imaginary solutions. Doze already has the solution at hand; metaphysics is perfectly sufficient. Miró’s playing field is theatrical, Doze’s is ceremonial: dream and madness become, luckily, dream and magic. Gallerists love to talk about his therianthropes, the human birds who officiate at the communicative trance ceremonies between different worlds, in the religions of the African diaspora. Using the high sounding words of ancient Greece ennobles so much, but it does us no good. It would suffice to talk more about these white lines that connect his creatures: are they the invisible energy that binds us all? I believe they are.

Categorie:New York, Recensioni

La storia dei primi siti di writing italiani by Nitro, king of nerds…

27 febbraio 2024 4 commenti

Questa storia la volevo fare da anni, dal 1997 per la precisione. In quel momento ero arrivato online grazie ai miei fratelli e navigavo a destra e a manca con Alta Vista, che era il motore di ricerca che andava in quel periodo. Poi c’era Yahoo, una mega directory di siti catalogati tipo biblioteca e, a un certo punto, mi avevano parlato di questo motore fighissimo appena uscito, che era Google. Quindi vado con Alta Vista e trovo il sito di Nitro, porcaccia la miseriaccia con il mio mega sito di aerosol art ero arrivato secondo, anzi terzo. In quel momento Internet non veniva usato per essere la marchetta di se stessi sui social media: era più una roba cyberspaziale dove viaggiavi di bestia pensando a un futuro fatto di giffine minuscole, pace, amore, libertà e nerderia pesante. Quindi eccomi con la mega storia di Nitro e della sua web agency Workin Class, raccontata anche da tre ospiti d’eccezione. A voi per imperitura memoria, iniziamo con il raccontone di Nitro, big respect!

A memoria, il primo sito italiano di wiriting è stato Stradanove dell’Ufficio Giovani del Comune di Modena: aveva foto locali e un po’ dei nomi top italiani. Io ho iniziato con Geocities, la piattaforma di pagine personali più grande: avevi un builder con cui caricavi foto e testi, non potevi gestire il codice HTML. Il sito era Eternal Funk. Il nome a dominio era bellissimo: in quel momento, comperare un nome costava un casino quindi usavamo cjb.net, che ti dava un subdomain gratis. Tenevi l’hosting gratis su Geocities, poi nascondevi il domain principale con un frame di cjb.net e ci mettevi un nome più figo. Willy aveva fatto un jingle che c’è ancora su Youtube. Pubblicavamo i rap degli amici: Willy, La tavola rotonda, poi è arrivato Fritz. Vanni di Bari aveva scritto qualche recensione, all’epoca stava a Pavia: il nome mi sembra arrivasse da un suo mixtape. Volevamo promuovere le nostre cose: avevamo un muro a Corsico, uno in Giambellino dove abitava Nasty, Cone e io eravamo di Baggio. Roba di Corsico e Cesano. Tanti treni, sul Eternal Funk c’erano tutte le prime Nord, i primi marron glacé dipinti.

Uno dei siti importanti di quel periodo era HotMC, che è ancora online dal 1996: avevo conosciuto Simone Lippolis e ci eravamo scambiati i link. All’epoca dovevi chiedere per inserire un link, non si usava fare liberamente. Poi ci aveva segnalato anche Susan Farrell di Art Crimes: loro erano online dal 1994, erano i Godfather, il sito era fatto benissimo. L’ambiente online era molto ristretto in Italia: quando avevamo il picco di utenti mensile era tipo 30-40 persone. Quando ti scriveva qualcuno ti veniva da piangere: gente da posti remoti, non ti mandavano neanche le foto, erano solo saluti telegrafici e finiva lì.

Poi dopo ho imparato ASP, il linguaggio di programmazione dinamico di Microsoft che usava il database Access. Con Luca Seil2 facciamo anche noi un sito, Underground Revolution: era undergroundrevolution.cjb.net e poi urev.net perché avevamo un po’ più di budget. Era il 1998-2000. Il sito aveva già le categorie per ogni writer, era più moderno. In quel momento c’erano già più siti personali, ma che facessero vedere la scena per intero ancora pochi.

Poi da questa esperienza, mi sono aperto la web agency, nel 1999, Working Class. I primi clienti erano stati Esa e gli OTR con otr.it, il loro primo sito ufficiale in Macromedia Flash e poi anche videoclip. Poi Kaos, Neffa, Lugi, Guidance Crew a Milano. Con questi artisti avevamo avuto una bella visibilità e grazie a loro abbiamo conosciuto Alioscia, che ci aveva fatto fare il Ballantines Music Fusion. Poi Marco Conforti ci aveva fatto fare Platinette e siamo entrati in tutto quel giro di artisti.

Working Class è stata una palestra per tanti writer a Milano, che entravano con noi nel digitale. Un giovanissimo Giorgio Di Salvo, un giovanissimo Luca Barcellona, Marco Klefisch: sono stati tra i primi a entrare in agenzia come stagisti e poi dipendenti, che naturalmente pagavamo pochissimo perché non eravamo ancora grossi. Anche Simone di hotmc era venuto da noi per un periodo. Giorgio era un bravissimo grafico, stava ancora studiando grafica ma avevamo visto immediatamente le sue qualità. Lo facevamo lavorare con un computerino piccolissimo. Poi i clienti sono diventati grandi, abbiamo portato anche lì il nostro genere ispirato al writing. Omnitel Vodafone, Coca Cola, Nokia, Rizzoli New Media per cui facevamo i CD-ROM. Slam Jam. Poi siamo stati acquisiti dal gruppo Interactive e noi fondatori abbiamo mollato. Con Andrea Rasoli e Riccardo Trotta, nel 2006, abbiamo fatto i primi tre numeri di Vice, che poi loro hanno portato avanti per anni.

Per ultimo c’è stato Pimp My Train, che era il progetto di marketing dello shop Graffbay. Assieme a un amico programmatore molto bravo, Nazilla, avevamo programmato un piccolo motore dove tu disegnavi online sulle carrozze e poi le vedevi passare in un header del sito. Quindi ogni volta che accedevi al sito, vedevi passare i treni. Era fighissimo. Era fatto in Flash, super rivoluzionario come sistema. Poi il sito funzionava come un forum, la gente postava le foto. Il sito era gestito da Maox e i miei amici di Autistici, quindi diciamo che il server era super sicuro. Iniziava a esserci online la Postale, per cui era comodo, ci proteggeva parecchio sull’aspetto degli upload di foto. Poi c’era il blog. Valentina Porcozio, alter ego di Alessandro Mininno, grandissima autrice, da pisciarsi dalle risate. Tutti hanno bei ricordi di quel sito perché comunque faceva sorridere, in una Milano dove c’era un po’ un ambiente di super scazzi. Facevamo 1000-2000 visitatori al giorno, era una roba grossa nel suo genere.

Ale Fatbombers ci ha dato una testimonianza a suo modo fondamentale per inquadrare correttamente l’intersezione tra shitposting e hip hop italiano. Di questo gli daremo sempre credito, in quanto estimatori del “frottolaio popolato da mitomani”.

Per un po’ di anni ho avuto un sito che si chiamava fatbombers, che in realtà mi ha portato un po’ di fortuna ed è stato attivo negli anni 2003-2010 circa, fino a quando la mia attenzione verso il writing non si è affievolita. Raramente lo racconto, ma un giorno ho litigato con un cliente perché ha aperto fatbombers (sapendo che era il mio blog) e la prima immagine in homepage era una ragazza nuda che si ficcava un marker nel culo – al cliente non è piaciuto.

Quando ho conosciuto Nitro è stata una ventata di aria fresca: pimp my train era il primo luogo online dove non ci si prendeva sul serio e si poteva scherzare.

Immagina di trovare un blog in cui l’utente più attivo si chiama pennecolbooster e prende per il culo tutti. Ho voluto subito farne parte e per un bel po’ di tempo, in modo saltuario, ho pubblicato qualunque minchiata che avesse lontanamente a che fare col writing, con la cultura nerd o con un’intersezione delle due.

Alla fine ho scelto di postare con lo pseudonimo valentina porcozio (credo che all’inizio ci fosse proprio la bestemmia ma poi l’avevo cambiato), per non tirarmi dietro gli stessi hater che avevo su fatbombers. ne volevo di nuovi.

Ogni tanto pubblicavo qualche pannello nella gallery, che era sempre molto attiva e piena di cose nuove. leggevo sempre le cose che postavano gli altri utenti. Non conoscevo nessuno degli altri, credo (avevano tutti degli username buffi), ma avevo la percezione che fossero tutti simpatici. Ho riso un sacco.

Penso che nella storia del writing italiano su internet pimp my train abbia rappresentato una svolta nell’approccio al fenomeno: è arrivato in un momento in cui il writing aveva una storia abbastanza lunga da smettere di prendersi sul serio e iniziare a ridere. È stato l’inizio dell’era dei meme di graffiti.

Luca Bean ci ha mandato anche lui un ricordone, dal suo punto di vista peculiare di artista che ama la manualità e aborre l’alta velocità del digitale. Da qui emerge una lunga meditazione che farò stasera sul senso del tempo: ipervelocità come eterno futuro presente, in contrasto con uno dei suoi rari dischi da collezione così vecchi da essere ormai fuori dal tempo. Ne sarò capace? Forse con l’aiuto di un grande spinello di afgano del coffeshop di Amsterdam. Grazie.

Io e la tecnologia non siamo mai stati particolarmente amici, piuttosto due binari molto vicini che si osservano senza mai toccarsi. Ero uno da inchiostro e mani sporche, ho avuto quindi quella reticenza ad abbracciare il mondo del digitale a cui decisi di cedere leggermente più tardi di altri; ricordo benissimo uno scambio di saluti con Nitro, fuori dall’Indian Café un pomeriggio di fine anni ‘90, che mi chiese una mail per potermi scrivere, e la alla mia risposta “non ce l’ho!” la sua reazione fu “…ANCORA?!?”. Qualche anno dopo venni chiamato per uno stage da Working Class: non ero ancora freelance e non avevo ancora completamente cominciato la mia avventura nella calligrafia professionale, quindi passavo i pomeriggi in studio dopo il mio lavoro ufficiale part time. L’atmosfera era di quelle incredibili a pensarci oggi: come sempre accade in queste circostanze non ti rendi conto di quanto siano speciali, e di li a poco irripetibili, mentre le vivi.


Io mi occupavo più che altro di lettering, facevo progetti per copertine di dischi e pubblicità partendo dal disegno manuale e poi spippolando ore su Free Hand (prima) e su Illustrator (poi). Nitro e Riccardo (Trotta) avevano già competenze notevoli di web e computer grafica, tanto che in una delle pubblicità di Working Class si erano ritratti con Rasoli come dei geek con tanto di occhiali con montatura nera spessa, in mezzo a dei Macintosh di prima generazione. Simone Lippolis aveva gia il sito Hotmc.com, e mi fece un’intervista su Lingua Ferita, un disco del 2005 che avevo autoprodotto che a sua volta fu corredato da un sito fatto a quattro mani da Marco Klefisch e Giorgio Di Salvo (che lavorava in una scrivania di fianco a me). Credo fosse il primo sito dedicato ad un disco interamente in free download con un forum dedicato aperto sulla homepage. Nella stessa stanza lavoravano quindi una buona manciata di writer, che a loro modo trasferivano le loro esperienze di gusto e conoscenza in quel mondo creativo. Altri si occupavano credo di programmazione, me li descrivevano tutti come dei mezzi geni; di certo so che mettere tutte queste persone in una stessa stanza creava un clima cameratesco in cui stare seri, zitti e concentrati per più di un minuto era praticamente impossibile. Quelli che mettevano le cuffie per isolarsi subivano prese per il culo a loro insaputa…


Quello che dicevo, invece: è impressionante constatare come tutte queste persone abbiano poi seguito il loro talento come designer e imprenditori e artisti, eccellendo nei loro campi dando vita a progetti e collaborazioni fino a quel momento inimmaginabili.

Dopo la pubblicazione del post ci siamo visti con Marco Klefisch ed è emerso un altro pezzetto della storia di Working Class. Contributo stellare, che si intitola: Curvatura temporale tra web e writing ovvero “Vedrai quanto è profonda la buca” etc. etc.

Premessa
La cosa che ricordo con gioia di quegli anni di lavoro è la costante presenza delle risate. Ci fu un punto nel quale ogni volta che la mia compagna mi chiamava al telefono, mi sorprendeva a ridere. Morire dal ridere.

Al quel tempo fui assunto come art director in WC. Poi arrivarono un manipolo di amici, talenti, giovani virtuosi, tra stage e lavoro, a rimpolpare le fila di un team unico, improbabile e scoppiettante. In questo clima, tra goliardia e psicoterapia, va ricordato un momento che racchiude in sé l’essenza stessa dell’agenzia, l’approccio al business, l’energia, la fluttuante visione di un futuro migliore.

A colloquio con uno stimato art director ex writer con estesa esperienza Londinese, venuto a trovarci in vista di una collaborazione, il tono generale fu compassato e professionale tra scambi di reference, progetti sviluppati e vita mondana da scrivania.
Nel momento di spostarci dalla sala riunioni verso l’open space che ci ospitava tutti come team di sviluppo creativo, varcammo la soglia della stanza gesticolando e spiegando con serietà il valore del cuore pulsante dell’agenzia., il dipartimento creativo.
In quel secondo entrarono dalla porta, inconsapevoli del summit strategico, Miki editor video dell’agenzia e LS web designer e creativo di valore.

Scena
Miki inseguiva LS ridendo, zampettando e cercando di afferrare con mani avide qualcosa di prezioso avanti a sé. LS lo precedeva, scodinzolando e saltellando nel tentativo di mimare un coniglio vivace, con pantaloni e mutande calati sul retro, a far lampeggiare natiche bianchicce tra le quali era incastrato un vero pezzo di fumo (hashish).

A chiudere la coreografia che scompigliava la sala lasciando di stucco il nostro ospite anglo-pesarese, il ripetersi a gran voce di una frase, tra canto e recitazione, rimasta negli annali della cinematografia di genere nonché del web deesign: “segui il bianconiglio, segui il bianconiglio, segui il bianconiglio! Segui il bianconiglio per dio!”.
Ecco.


Conclusione
Difficile dire come il writing e il web si intrecciano in questo racconto… un sacco di input, un sacco di output… quel che so per certo è che se una cosa emerge chiara e lampante da questa storia è proprio la definizione di cosa sia il genio: “intuizione, colpo d’occhio, velocità di esecuzione.”

Firmato
Sasso Markoni

Categorie:Milano

Recensione e prova d’ascolto: Dondi + Aeron

25 febbraio 2024 Lascia un commento

I nerd dell’aerosol art conoscono e adorano il libro Style Master General, monografia di uno dei writer più stilosi di sempre, Dondi White. In quelle pagine ci si bea di pezzate celestiali, classiche come l’arte dell’Antica Grecia, belle come l’hip hop dei primi anni ’80 che non tramonterà mai nei nostri cuori.

Sull’onda di sta cosa della sonorizzazione del writing, ho tampinato Cyrus (colui che ascoltò 50 mila album) e Vanni (colui che resse il pranzo della domenica dai suoceri): dieci tracce a testa (qui io, poi Cyrus e poi Vanni), una playlist per uno e proviamo a stare su questo treno del 1981 dallo speciale di Spraymium. Quindi, se vi va, beccatevi la nostra idea musicale che è un tributo a Dondi White: grazie leggendario maestro, ogni volta i lacrimoni con ste foto. No anzi, l’energia infinita…

Ho fatto anche un tentativo di recensione da critico d’arte: è la mia fissa di adesso. Le citazioni colte partono da name dropping pesante di G. Spazio, che ringrazio. Mia figlia mi ha detto: Ma papà, aspettà un secondo, ma proprio con Dondi? Ma non puoi prendere qualcosa di un tuo amico, così ti fai meno male… Ma no Ceci, perché, facciamo bungee jumping con il mio equilibrio psichico, è più divertente… o la va o la spacca…

Scroll at the bottom for a machine translated English version of my art critic fun test.

Un classico lo riconosci perché piace a tutti. Dondi è questo per l’aerosol art: il più amato dai writer, il più ricercato dai collezionisti, il più fotografato nei primi libri mass market che hanno lanciato il writing in tutto il mondo.

I suoi whole car Children Of The Grave sono un simbolo universale dell’hip hop dei primi anni ’80: il puppet di Bodé che mangia la mela e la mano tesa al cielo, le lettere morbide, le palette pastello. Probabilmente i treni più famosi di sempre. Forse lo spartiacque con la nuova generazione che era stata l’ultima a fare i whole car, prima che i treni venissero puliti in maniera massiccia. Siamo nel ’78-80: Dondi aveva preso le consegne da maestri come Lee, dai loro whole car figurativi che avevano il sapore del muralismo latino americano. Spiriti liberi, citazioni libertarie hard rock, i grandi temi sociali delle inner city terzomondiste. I writer pescavano a piene mani dal mondo dei fumetti: facile farsi capire dal grande pubblico dei pendolari sulla subway, facilissimo fare cose belle senza essere veramente fumettisti. Nella coscienza collettiva è rimasto questo ed è qualcosa di molto diverso da quello che hanno nel cuore i writer.

Il punto di frattura: ai writer non serve un’analisi verbale, al grande pubblico sì. Ma critici d’arte e giornalisti si sono spinti raramente oltre a pochi luoghi comuni: il gesto illegale, la performance esotica, il grido di redenzione che erompe dalla periferia. Anche nel passaggio alle gallerie d’arte, lo stereotipo resta un terreno sicuro: se il writer si limita a dipingere i suoi pezzi su tela è meglio, molto facile da capire per il collezionista, “molto vero”. Lo racconta Edit deAk nella recensione del 1983 per Artforum della mostra di Dondi alla 51X Gallery: “Questo scoraggia l’artista dal cercare adattamenti da un campo di gioco visuale a un altro del tutto nuovo.” Al nuovo pubblico dell’arte tradizionale, Dondi presenta figure stilizzate, sketch che raccontano la vita di quartiere: “gli amici, i personaggi, gli sguardi, i ricordi personali”. Ma anche qui siamo nel dominio del figurativo, di opere create per un pubblico diverso, per le persone normali.

Se parli di Dondi con un writer, probabilmente finirai a parlare di panel pieces, di window down, dei pezzi più piccoli che spesso eseguiva in coppia con un amico, disegnando lui i bozzetti per tutti. E’ qui che trovi il nocciolo duro della faccenda, la purezza della cultura: quando senti parlare di style writing, è questo. La sensazione è sempre quella morbida e pastellata dei whole car, ma i cartoon questa volta non arrivano dalle edicole e dalla tv. Sono completamente originali e fatti di lettering: semi wild style e wild style. Il soprannome di Dondi era Style master general: Lady Pink diceva che suonare come Hendrix e dipingere come Dondi è un sogno, una fantasia impossibile. Per trasmettere la forza della sua impronta stilistica, basti pensare che la scena europea esplosa a Parigi e Amsterdam nell’84-85 arrivava in buona parte da lui e dalle sue crew, TOP e CIA. Dondi è facile, elegante, sofisticato. Trasuda self confidence, ha un gesto rapido e pulito. Dondi è famoso perché disegna con una dedizione assoluta, i suoi outline sono meticolosi fino alla perfezione.

Ma, nel deposito, ha una execution da arti marziali: il tempo a disposizione e la luce sono pochi. Devi dipingere senza accendere il cervello, hai solo i sensi amplificati al massimo e l’istinto. Dipingere è una questione di velocità, di combattimento. Il giorno dopo, l’incertezza si vedrebbe subito. E’ qui che vedi il maestro: la fulmineità del gesto creativo che deriva dall’intelligenza, come diceva Emilio Villa: “Parlarono della pittura come gesto, il gesto della pittura. Qui credevano che il gesto consistesse nel fare così… pennellare col gesto, capito? No, il gesto era un fatto interno, un fatto pensoso che prima di muovere era mosso dal pensiero”.

In un’epoca di AI che sa riprodurre tutto, forse è questo il concetto prezioso da portarsi a casa. Puoi ripetere per filo e per segno i formalismi di Dondi: sarai uno dei tanti manieristi di oggi, tecnici e perfettamente in stile, vuoti. Questo lo vediamo fare progressivamente sempre meglio anche alle macchine. E’ lo spirito del maestro quello che ti segna, è lì che sta l’arte, “la scienza che sa ancora di magia”. E questo forse non serve spiegarlo a parole, perfortuna.

A classic is something you recognize because everyone likes it. In the aerosol art domain, Dondi embodies this universal acclaim: the most beloved among graffiti writers, the most sought-after by collectors, and the most photographed in the pioneering mass-market books that introduced graffiti to a global audience.

His “Children Of The Grave” whole cars are an iconic representation of hip hop in the early ’80s: Bodé’s puppet munching on an apple and a hand stretched towards the sky, soft letters and pastel palettes. These are arguably the most famous trains ever. They might also represent a turning point for the last generation that engaged in whole car graffiti before massive clean-up efforts began. During 1978-1980, Dondi picked up the baton from masters like Lee, whose figurative whole cars carried the flavor of Latin American muralism. They incorporated elements of free spirit, hard rock libertarian quotes, and the major social issues of the inner-city. Writers heavily drew inspiration from the comic book world, making it easy to communicate with the broad commuter audience on the subway, effortlessly creating beautiful works without being professional comic artists and illustrators. This legacy has remained in our collective consciousness, marking a departure from what real writers hold dear.

The divide lies here: while graffiti writers may not seek verbal analysis, the general public does. However, art critics and journalists have seldom moved beyond a few clichés: the illegal act, the exotic performance, the outcry for redemption bursting from the outer boroughs. Even as aerosol art made its way into art galleries, stereotypes continued to offer a safe haven. Limiting writers to painting their pieces on canvas was deemed preferable and easier for collectors to understand, “very real,” as Edit deAk pointed out in her 1983 review for Artforum of Dondi’s exhibition at 51X Gallery. This discouraged artists from seeking adaptations from one visual playing field to an entirely new one. For the new traditional art audience, Dondi presented stylized figures and sketches depicting neighborhood life “friends, characters, glances, personal memories.” Yet, even here, the work remained figurative, designed for a different audience, for ordinary people.

When talking about Dondi with a writer, the conversation likely shifts towards panel pieces, window downs, the smaller works he often executed with a friend, drafting sketches for both. This is where you find the inner core of the matter, the purity of the culture: when you hear about style writing, this is it. The feeling is always that soft, pastel vibe of his whole cars, but the cartoons this time are not from newsstands or TV. They are completely original, made of lettering: semi wild styles and wild styles. Dondi was known as the Style Master General: Lady Pink remarked that playing like Hendrix and painting like Dondi was an impossible dream, a fantasy. To convey the strength of his stylistic imprint, consider that the European graffiti scene that burst onto the scene in Paris and Amsterdam in 1984-85 was largely influenced by him and his crews, TOP and CIA. Dondi’s style is effortless, elegant, sophisticated. He exudes self-confidence, with a gesture that’s fast and clean. Dondi is renowned for drawing with absolute dedication, his outlines meticulously perfect. On the Internet, it’s been defined as monastic.

But in the train yard, his execution resembles martial arts: time and light are scarce when you’re bombing. You must paint without engaging the brain, relying solely on heightened senses and instinct. Painting became a matter of speed, it’s like fighting. Any uncertainty would be immediately noticeable the following day. Here, you witness the master: the rapidity of the creative gesture that stems from intelligence, as Emilio Villa put it: “They spoke of painting as gesture, the gesture of painting. Here, they believed the gesture was to do this… paint with a gesture, understand? No, the gesture was an internal affair, a thoughtful act that was moved by thought before movement.”

In an era where AI can replicate everything, this might be the precious take away. You can replicate Dondi’s formalisms to the letter: you’ll be one of many contemporary mannerists, technically proficient and perfectly stylish, yet void. This is something machines are progressively doing better as well. It’s the spirit of the master that marks you, that’s where art lies, “the science that still tastes of magic.” And perhaps, fortunately, this doesn’t need to be explained in words.

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