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Rusty SPA al Macchia Nera, Pisa 1997

Rusty SPA.
L’anno della pezza dovrebbe essere 1996 o 1997 (1997 mi dicono, durante Panico Totale).
Per fortuna Duke1 mi ha girato la foto, perché non l’avevo mai visto, dato che al Macchia Nera c’ero stato 7-8 anni prima.
E siccome non posso raccontarvi storie pisane del 96, quando è stato fatto il pezzo, vi racconterò una del 1989, quando ci sono stato io. Che con la pezza di Rusty, lo so, non centra una beata minchia.
Quindi beccatevi la sturieleta pisana.

UN SABATO PISANO DI FINE AGOSTO 1989

Era la calda estate del 1989. si, proprio quella calda dello sgombero del Leoncavallo quella di 30 anni fa tra un paio di giorni, che gli sgomberi i cani blu li fanno sempre a ferragosto.
Lo sgombero e gli scontri erano passati da qualche giorno, quando io, Corrado Riot, Antonio di Linea Diritta ‘zine, un pò di gente della Whip/S13, del T28, di Mandragora, insomma: gli ultimi mohicani della scena hardcore milanese, decidiamo di lasciare il rovente asfalto della Milano da bere per presentarci, ribaltando il significato del noto proverbio toscano, all’uscio dei pisani.
Era il primo tour europeo dei Bad Religion, non suonavano a Milano ma nella ridente cittadina toscana.
Il primo appuntamento era al Due (per i forestieri il Due è Via Filangeri 2, l’indirizzo del carcere di S. Vittore). Quello stesso giorno il buon vecchio Teatro veniva scarcerato con altri compagni, in attesa del processo. Uscì dal Due e sul portone gli si comunica che sta partendo con noi per le lande pisane.
Passo successivo in Stazione Centrale, per prendere uno dei famigerati carri bestiame che, Ferrovie dello Stato prima e Trenitalia poi, si ostinano a chiamare treni.
Il viaggio risulta normalmente disagevole, con il riscaldamento della carrozza in funzione nonostante i 38 gradi esterni, ma noi si era allegra combriccola di esagitati 20enni e non ci si faceva caso. Tanto i finestrini erano tutti aperti e, per quelli non, una chiave FS saltava sempre fuori.
Qualcuno non era munito del necessario papiro ferroviario e a ogni passaggio di controllore prendeva posa supina sotto i sedili. Il resto era ricorso alle arti della Luciana e disponeva di ticket tarocco identico al vero.
La prima tappa è a Genova, dove la coincidenza per Pisa non coincide ma si procrastina nel tempo e nello spazio, essendo qualche ora dopo nell’altra stazione. Decidiamo di fare un passeggio in Via Prè, dove ci facciamo chiassosamente notare. Ci facciamo notare pure troppo, tanto che la cassa comune, affidata alla tasca interna del cappello di Teatro viene visibilmente notata. Capiamo che l’ora di far ritorno alla stazione era giunta anche se non era giunta, e ritorniamo.
Arrivati allo scalo pisano (conosciuto precedentemente in un Pisa – Milan dei tempi di Anconetani e Farina) ci dirigiamo all’uscita senza la più pallida idea della direzione da prendere.
Nessuno si era informato dell’indirizzo del Macchia Nera.
Fuori dalla stazione c’era una piazza con tanto di aiuole, marciapiedi, traffico e tutto quello che uno, in una piazza, s’aspetta.
In mezzo alla piazza vediamo un gruppo di giovani e meno giovani con magliette dei Bad Religion, zaini, borse e borsoni. Noi ci si rincuora e ci si avvicina. L’intenzione è di chiedere ai ragazzi, visibilmente in loco per il nostro medesimo motivo, indicazioni per raggiungere il Macchia.
Prima ancora d’aver l’occasione d’aprir bocca, uno dei giovani meno giovanotti si gira e ci chiede: “Do you know where’s Macchia Nera?“.
Era Greg Graffin dei Bad Religion. Ora che lo si vede in faccia non ha più l’aria dell’adolescente che aveva da lontano. Dimostra tutti i suoi, boh… 30 anni? Inconcepibilmente vecchio per dei neoventenni come noi.
A 21 anni il mio inglese non era quello fluente e colloquiale di oggi, per cui tra me, Corrado e Antonio, si farfuglia qualche lemma consono a fargli comprendere la nostra assoluta ignoranza della toponomastica pisana. Oltretutto l’unica freccia visibile indica la direzione “torre pendente”. Interessante meta, ma non utile a risolvere lo stallo.
I californiani ci fanno capire che dovrebbe passarli a prendere un pisano furgonemunito per portrli al c.s.
Ci fanno capire, inoltre, che attendono sotto il sole da almeno 1 ora.
Ci fanno capire, infine, che hanno rotto il furgone da qualche parte in Germania e stanno proseguendo il tour in treno.

In treno.

in Italia a fine anni 80.

C’è da stupirsi se lo hanno poi completato il tour!
Noi gli si fa compagnia fino a quando, nel giro di svariate mezz’ore, arriva un crestato pisano, col tipico cipiglio di chi è appena stato svegliato dalla pennichella.
La giuria popolare, essendo composta di alacre popolo meneghino, sgomenta, rabbrividisce e rimanda il pigro aborigeno laddove deve andare (cioè non soltanto verso il Macchia Nera).
Intanto, essendo il primo pomeriggio ed avendo ore a pacchi da far passare prima dello show, decidiamo di fare visita al negozio Wide Records per salutare il buon vecchio Pippo GDHC.
Avendone l’indirizzo e sapendolo non lontanissimo dalla piazza il compito appare facilitato, pur se complicato dalle incomprensibili indicazioni degli aborigeni.
Dopo svariate svolte destre e sinistre senza costrutto alcuno, arriviamo.
Il tempo scorre tra chiacchiere con Pippo e soci, acquisti di dischi e promesse di scambi di materiali sonori vari. Prima di uscire, però, ci ricordiamo di chiedere indicazioni per il Macchia Nera.
Degni eredi di una tradizione locale di indicazioni stradali al confine tra il surreale e l’assurdo, sulla scia degli aborigeni in precedenza incontrati, la risposta che otteniamo è più o meno qualcosa di simile a: “Gli è he tu prendi codesta straha, no qhuella!, oh he tu giri addeshra no alla prima ma alla sehonda sul laho opphostho. Sicchè tu arrivi indove vi è un phonte. Non phassi il phonte ma gli giri in hosta, chè la straha gli è piùllunha di hilometri setthraversi. Ma vai drittho, e poi sinishra, e poi la quartha addeshra dell’edihola della Nazione, he ci sta un fornaio, e indove la straha curva gli è il hancello del Mahhia Nera sull’addeshra“.
Mavaffanculo. Ovviamente alla prima svolta ci perdiamo e continuiamo a vagare come zombi in un film di Lucio Fulci.
Ci viene in soccorso San Moretti da Sessantasei, che ci manda un segnale nelle fattezze di un flyer che pubblicizza la serata, per cui adesso abbiamo un indizio dell’esistenza del Macchia Nera su questo piano di realtà.
La visione del cancello scardinato ci da infine la certezza che noi e il Macchia Nera condividiamo le medesime coordinate spazio-temporali.
Il Macchia era un ex villa con parco rimasta abbandonata per anni. Aveva da poco subito un attacco dalla feccia fascista locale, ed erano visibili i resti bruciati delle molotov tirate. Come se non bastasse dal soffitto si infiltrava acqua piovana e chi gestiva il posto si arrangiava come poteva.
Date le ridotte dimensioni dello spazio concerti nella villa il concerto si tenne nel parco.
Il palco esterno era la struttura più terrificante che abbia mai visto per un concerto punk, infatti il palco era a quasi due metri d’altezza. In pratica da sotto il palco vedevi le scarpe dei musicanti ad altezza faccia.
Il piano del palco era posto su una serie di muretti di foratoni di cemento, tirati su a un metro di distanza uno dall’altro. Per non lasciare in faccia alla gente la fila di muretti, il lato verso il pubblico era coperto da una parete di lamiera ondulata.
Intanto inzia il concerto: era il tour di presentazione di Suffer e la scaletta prevedeva quei pezzi e vecchi classici.
Intanto, sotto il palco, il contingente Milano Hardcore dominava il pit. Non si facevano windmill da segaioli come gli sfigati degli anni successivi, ma mucchi umani di 20/30 persone che si gettavano dal palco una sopra l’altra. In uno di questi, l’Amanda venne estratta paonazza, con una manciata di costole incrinate e, forse, fratture scomposte.
Nei primi 10 metri davanti al palco non c’era nessuno che non avesse mai calcato i marciapiedi di Lambrate, salvo un metallaro pisano completamente ubriaco, che pogava fuori tempo. Noi, infami come pochi, viste le sue precarie condizioni psicofisiche, lo incitammo nella rovina musicale e morale. Dopo poco scoprì che lanciandosi contro la parete di lamiera con il proprio corpo poteva produrre un rumore tipo SBRRRAAAAAAAANNNNNGGGG!!!!!! capace di rivaleggiare con l’impianto audio del concerto.
Noi, naturalmente, si accoglie con un “olè!” ogni SBRRRAAAAAAAANNNNNGGGG!!!!!! che risuona tra un pezzo e l’altro. Il giovane, persa oramai ogni dignità e ogni senso del rischio comincia ad produrre i successivi SBRRRAAAAAAAANNNNNGGGG!!!!!! a testate con rincorse sempre maggiori. Finalmente arrivò il premio alla nostra infamità: invece di uno SBRRRAAAAAAAANNNNNGGGG!!!!!! risuonò nel silenzio totale della pausa tra un pezzo e l’altro un secco THUD.
Dopo una discreta rincorsa e un tuffo a volo d’angelo, aveva colpito l’onduline nel punto dove questo copriva la testa di un muro in foratoni di cemento.
Inizialmente ci aveva anche preoccupato, in fondo avrebbe potuto anche rimanere offeso nella sua integrità, ma la presenza di respiro e battito cardiaco consentirono l’ilarità generale.
Per festeggiare la scena indegna si offrì birra a fiumi all’indomito kamikaze.
Nel frattempo il concerto finisce, i BR vengono accompagnati da qualcuno che li ospiterà e il MIHC contingent si ferma a dormire nel centro sociale.
I compagni pisani, in un impeto di generosità ci mettono a disposizione il salone del bar, dove una distesa di bicchieri di plastica rotti e pozzanghere di birra fanno da materasso alle nostre stanche membra. Io mi accomodo insieme ad altri su un tavolo, slalomando tra scoli liquidi di dubbia origine e pattume assortito per dormire qualche ora. Tra un cazzeggio e l’altro si erano fatte le 5.00, e nel primo pomeriggio avevamo il treno che ci avrebbe ricondotto nella metropoli.
La situazione era quella che era, per cui dopo un 3-4 ore di sonno eravamo quasi tutti svegli, pronti a destare anche gli ultimi addormentati con lanci di rumenta.
La mattina ci si riavviò in direzione stazione dove, tra orde di pisani che vanno a messa con il vestito buono, 15 punks lerci di pogo e birre fecero voltare più di un occhio e tappare la totalità dei nasi.
Ma la stazione è qui, il treno, questa volta diretto, pure.
Gli appennini si aprono all’orizzontalità padana e il cielo color pantegana dell’agosto milanese ci riaccoglie nel suo caldo abbraccio.

 

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