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Quincy Jones e il jazz di Hollywood

Ho fatto un mix con la musica di Quincy Jones dei primi anni ’70, qualche album e qualche colonna sonora. Lui è uno dei grandi musicisti afroamericani, ha vinto quasi 30 Grammy e prodotto i tre album più venduti di Michael Jackson. A me interessava riascoltare i suoi album Smackwater Jack, You got it bad girl e I heard that! che avevo tutti all’epoca in vinile. A Natale ne ho ricomperato uno come regalo a mio figlio, quello bellissimo con Hicky Burr. Non ho ancora capito bene come funziona Hear This: il mix lo ascoltate da questo link. Ci ho messo quel suo sound che sta tra jazz, jazz funk, pop, stile e magia.

Mi era un po’ venuto in mente perché ho lì l’album sul tavolo e già che c’ero ho messo anche qualche pezzo di Burt Bacharach, che è mancato settimana scorsa e in un certo senso era affine a Quincy Jones per certe canzoni e atmosfere pop easy cinematiche anni ’60. Poi volevo postare un po’ una spiegazione di questo suo sound specifico, che sta tra le sue colonne sonore anni ’60 e poi le produzioni già più disco, ma come al solito mi son perso via in settemila ricerche assurde.

Per farla breve ci sentite Aretha Franklin e Ray Charles: si andava da Quincy Jones per farsi un sound sofisticato, progressive ma garbato, capace di posizionare l’artista un po’ più in alto rispetto al puro Soul/R&B. Quando eri una superstar e volevi passare al livello ancora superiore, tipo divinità inarrivabile del cinema (sarà vero? Non lo so, io ho questa idea). Aretha ha un pezzo soul più la cover incredibile di Daydreaming, Ray Charles un gospel e un pezzo country (Take Me Home, Country Roads di John Denver, che in Giamaica aveva coverizzato Toots). C’è anche la famosa cover di Summer in the city, successo pop rock dei Loovin’ Spoonful che lui arrangia in maniera stellare per portarsi a casa una hit facile da capire per il grande pubblico medio che andava al cinema. Quindi un jazz cinematico con dentro tutto: soul, pop rock, gospel e radici black magari più di campagna che urban, easy listening bianchissimo da club pettinato, qualcosa di funk.

Alla fin della fiera con le mie tremila ricerchette penso farò ancora 1-2 mix di questa serie. Intanto ho giocato con DeepL per tradurre e con ChatGPT per rimaneggiare e fare la carne trita col testo, per cui vi posto un po’ di background sul jazz nel cinema americano. Ho evitato di inerpicarmi a fare io e mi sono invece limitato a un piccolo esperimento di copia e incolla passando dal nuovo ChatGPT come editor. So che vi piace quando posto le mie ruminazioni da dieci pagine, quindi ecco a voi!

IL JAZZ NELLE COLONNE SONORE DI HOLLYWOOD

Nel mondo del cinema, la musica ha sempre avuto un ruolo fondamentale, ma solo a partire dagli anni ’50 gli studios hanno cominciato a sfruttare l’immensa versatilità dei musicisti jazz per le colonne sonore dei film. Uno dei primi a sperimentare il jazz nel cinema fu Alex North, che nel 1951 compose la colonna sonora di A Streetcar Named Desire, un mix tra musica orchestrale e jazz che segnò una svolta storica nella composizione per colonne sonore, portando il suono hollywoodiano verso nuove sonorità meno legate alla tradizione europea.

In seguito, molti produttori capirono che i musicisti jazz erano molto più economici dei loro colleghi delle orchestre ufficiali degli studios e che un piccolo ensemble jazz poteva fornire lo stesso background musicale di una grande orchestra classica. In breve, le orchestre dei grandi studi hollywoodiani furono destinate a scomparire e la scena musicale si aprì a un numero sempre crescente di musicisti jazz, molti dei quali disoccupati a causa della fine dell’era delle big band di swing. Nel 1954, il sistema degli studios cominciò a dissolversi e i compositori passarono dall’essere impiegati dagli studios a creativi freelance.

Dopo il successo della canzone “Oh My Darling” in High Noon (1952), gli studios cominciarono a chiedere ai compositori di scrivere brani originali per i film, sia per scopi promozionali tramite la trasmissione radiofonica che, successivamente, per ricavare ulteriori guadagni dalla vendita degli album delle colonne sonore. Nelle classifiche di vendita, le colonne sonore era spesso la maggior parte della top10 degli album più venduti.

Leith Stevens fu uno dei primi compositori a utilizzare il jazz come genere, nel film The Wild One del 1953, con Shorty Rogers e i suoi Giants. Elmer Bernstein cambiò il modo di comporre per i film di Hollywood con la colonna sonora di The Man with the Golden Arm (1955), in cui Frank Sinatra interpreta un batterista tossicomane, unendo il suono potente della big band a texture di archi classici. Bernstein chiamò poi il quintetto di Chico Hamilton per creare un’altra colonna sonora importante, per Sweet Smell of Success (1957).

Tendenzialmente ricordo un doppio CD Crime Jazz che aveva tutto questo tipo di materiale.

Miles Davis, nel 1958, contribuì al film noir francese Elevator to the Gallows, diventando uno dei primi compositori afroamericani per il cinema e aprendo la strada a futuri artisti come Quincy Jones, Herbie Hancock e Terence Blanchard. Johnny Mandel, invece, utilizzò i talenti dei migliori musicisti della West Coast per I Want To Live, sempre del 1958. Miles Davis è interessante perché la scena della nouvelle vague francese adotta un jazz diverso: in particolare il cool e tanti artisti bop o hard bop più intellettuali, di avanguardia, meno legati al sofisticato mondo americano di Hollywood dove un nero era inquadrato più strettamente negli schemi della rappresentazione mediatica e professionale della persona afroamericana.

Anche il produttore Blake Edwards capì l’importanza della nuova tendenza, assumendo Henry Mancini per la colonna sonora della serie televisiva Peter Gunn (1958-61). Poi, si formò nel tempo una grande scuola di compositori jazz per colonne sonore di serie TV come Mike Hammer (1957-59), Richard Diamond (1957-60), M Squad (1957-60), MR Lucky (1959). Il lavoro di questi musicisti veniva raramente accreditato nei titoli di coda dei film, ma Quincy Jones fece un passo avanti importante elencando i suoi musicisti della colonna sonora alla fine del film The Hot rock (1972).

QUINCY JONES

Le profondità oscure della società americana emergono attraverso il cinema di coscienza sociale degli anni ’50 e ’60, e la colonna sonora di Quincy Jones per il film The Pawnbroker del regista Sydney Lumet del 1965 è una delle prime espressioni di questa tendenza. La sua musica riflette una consapevolezza in via di sviluppo che coinvolgeva sia l’America bianca che nera, e rappresenta una miscela originale di sensibilità nera urbana e tecniche di orchestrazione europee.

La musica di Jones per The Pawnbroker si muove abilmente tra questi due mondi, con sfumature che ricordano la colonna sonora di Duke Ellington per Anatomia di un omicidio di Otto Preminger. Tuttavia, Jones compone e dirige la sua partitura in modo distintivo, come un “alieno” sgradito, con un linguaggio musicale inadatto che dichiara la sua posizione di “outsider” nel contesto della cultura afroamericana.

La sua partitura è una mescolanza di contrasti estremi e tessiture poliglotte, che celebra l’alterità e il melting pot culturale americano. I suoni latini, il sax alto in stile fusion, il contrabbasso be-bop, la batteria freestyle e l’organo atonale sono solo alcuni degli strumenti che Jones utilizza per catturare la vita vibrante della strada di New York.

Le partiture di Jones per Mirage (1965), The Slender Thread (1966), In Cold Blood e In the Heat of the Night (entrambi del 1967) formano un gruppo che caratterizza l’emergente “suono della città”, un ambiente urbano duro e violento in cui le tensioni razziali e criminali sono palpabili.

Quincy Jones è una figura chiave ma spesso ignorata nel panorama della colonna sonora cinematografica, che ha portato la musica fuori dalla sua caverna wagneriana e l’ha inserita nel contesto del traffico cittadino. Il suo inimitabile tema per la serie televisiva Ironside del 1967, con sintetizzatori e trombe stridenti, ha ispirato molti altri show televisivi e film degli anni ’70.

Poi finiscono gli anni ’60 e nel jazz delle colonne sonore cambiano i sound: questo è il momento che ho voluto rappresentare qui nel primo mix. Poi per 4-5 anni la moda diventano i film con la delinquenza di strada del ghetto, tipo Superfly e Shaft: la cultura afroamericana continua ad essere rappresentata in situazioni hard boiled ma in maniera molto glamorizzata e funky. Ecco la Blaxploitation.

LA BLAXPLOITATION

Il termine “Blaxploitation” è stato coniato nel 1972 dal presidente della NAACP di Hollywood, Junius Griffin, in un articolo del New York Times, in cui utilizzò il termine per criticare ciò che vedeva come “modelli di degrado, distruzione e droga”. Questo termine generico indicava i film dei primi anni Settanta realizzati da registi neri e destinati al pubblico nero. I film erano generalmente indipendenti, a basso budget e trattavano spesso di argomenti come il crimine, la droga, il sesso e le tensioni razziali. Tuttavia, questo genere comprendeva un’ampia gamma di film, per cui può essere problematico generalizzare. I film blaxploitation sono stati spesso accusati di glorificare la violenza e di perpetuare stereotipi sulle comunità nere.

Nonostante le critiche, molti dei film blaxploitation erano esplicitamente collegati al movimento rivoluzionario del Black Power dell’epoca e anche la musica spesso giocava con questa idea. In un’intervista del 1971 alla rivista The Crisis, il regista di Shaft, Gordon Parks, spiegò: “Penso che [Shaft] possa emergere come un eroe nero per i ragazzi neri”. La gente rifiutava l’immagine che attori come Sidney Poitier, che per coincidenza recitavano in film sonorizzati da Quincy Jones, avevano dato agli spettatori. “Sidney Poitier era un grande attore”, ha dichiarato l’attore Fred Williamson (Black Caesar, Hell up in Harlem e Bucktown, per citarne alcuni) al Los Angeles Times nel 2009, “ma non ha colmato il vuoto di come alcuni neri interpretavano il loro impatto sulla società”.

I primi anni Settanta furono un periodo incredibilmente fertile per la musica soul e funk. La tecnologia degli studi di registrazione era progredita e consentiva registrazioni multitraccia di alta qualità, mentre nuovi strumenti come i sintetizzatori e le unità di effetti come phaser, chorus, envelope-followers e pedali wah wah ampliavano la portata di ciò che era musicalmente possibile. Molti artisti di colore si allargarono e inserirono nella loro musica nuove influenze provenienti dalla psichedelia, dal jazz e dal latino, ampliando il linguaggio sonoro dell’R’n’B.

Secondo l’autore Nelson George nel suo libro The Death of R’n’B, una nuova sensibilità musicale sofisticata emersa nei primi anni Settanta, in cui la musica nera divenne “più lunga, più orchestrata, più introspettiva – alcuni album neri avevano la continuità e la coesione di colonne sonore anche quando non lo erano”.

Rickey Vincent nel suo libro Funk: The Music, The People and the Rhythm of the One osserva che “La formula del film Blaxploitation era un invito a nozze per il musicista nero per esplorare la gamma dell’esperienza afroamericana ed esprimerla in maniera nuova. Ogni colonna sonora presentava un tema introduttivo scattante e radiofonico, musica per le scene di inseguimento, suoni romantici o sexy per le scene d’amore, e musica per funerali, matrimoni, atmosfere di suspense furtiva e azione sanguinosa. Gli album producevano un livello di varietà e coerenza che rivaleggiava con le grandi band funk dell’epoca”.

Queste colonne sonore erano rock, jazz e soul. Comprendevano l’intera gamma di generi della musica nera. E sono durate nel tempo, attraverso gli anni e il cambiamento dei gusti, e persino scollegate dai film per i quali erano state create. Sono i suoni di un tempo, di un luogo e di un movimento preciso della storia americana. Secondo un articolo di Ebony del 1977, nel 1973 c’erano “101 produzioni cinematografiche con protagonisti o temi neri”, ma nel 1977 il numero si era notevolmente ridotto e “non aveva superato i dieci” quell’anno.

Di questo sound anni ’70 blaxploitation ho fatto un mix soul, senza usare l’immaginario poliziottesco con gli inseguimenti funky, i gangster, i tossicomani e tutte quelle cose lì. Ci ho messo invece tutta la parte positiva con i grandi artisti soul e le canzoni d’amore. Ascoltate il mix da questo link, è molto molto bellino!

Fabrizio mi dice che Netflix questo inverno ha pubblicato un documentario sulla Blaxploitation: Is That Black Enough For You?!? Ci sono tante recensioni in giro. La cosa divertente è che ci vedete Harry Belafonte, giamaicano che negli anni ’50 aveva cavalcato l’onda commerciale del Calypso, portato Miriam Makeba a New York per poi diventare un attivista dei diritti civili e uno dei producer della prima onda Blaxploitation. Ah ah come è piccolo il mondo… i miei mix di Calypso be bop stavano qui con la storia di quel periodo a NY.

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